Luigi Blasucci era l’ultimo grande della critica letteraria italiana del Novecento. Si è spento ieri a Pisa, dove ha insegnato prima nei licei, poi all’Università, infine alla Scuola Normale. Era nato in Puglia, a Altamura, nel 1924, in una famiglia di estrazione socio-culturale umilissima; uomo di invidiata bellezza e impeccabile eleganza, aveva nel suo habitus intellettuale, non meno che nei modi e nel portamento, una sprezzatura aristocratica.

Non leggeva mai per dovere professionale; studiava solo gli autori che più amava, e di cui conosceva a memoria migliaia di versi: Dante, Ariosto e Montale, oltre ovviamente a Leopardi, di cui era il massimo specialista. E non a caso, credo, se ne è andato poche settimane dopo aver licenziato per la stampa il secondo e ultimo volume del suo splendido commento ai Canti (il primo volume è uscito, per Guanda, due anni fa). È stato, alla lettera, il lavoro di una vita: avviato negli anni Ottanta del Novecento su sollecitazione di Gianfranco Contini, già a buon punto alla metà del decennio successivo, e poi solo apparentemente accantonato, in realtà lo ha accompagnato fino a pochi giorni fa. Lo ha integrato, limato, rielaborato quasi quotidianamente per tre decenni, con instancabile dedizione: certo per scrupolo di rigore filologico e aggiornamento bibliografico, ma soprattutto per geloso attaccamento a uno scartafaccio che era ragione di esistenza. Il destino di Sherazade non è solo una metafora letteraria.

SE, PIÙ DI CHIUNQUE altro, Blasucci ha saputo fare dell’explication de textes un genere critico maggiore, svincolato da ogni ipoteca ancillare, non è solo – non tanto – per il suo proverbiale orecchio metrico e ritmico, per la sua capacità di percepire ogni sfumatura della lingua, ogni minimo scarto figurale. Se meglio di tutti sapeva leggere una poesia, descriverne le forme e spiegarne il senso, al tempo stesso con limpido nitore e minuziosa finezza, è soprattutto perché credeva nella letteratura: anche quando si dedicava a esercizi di «diligente micrologia» (parole sue), non sezionava freddamente i testi, come troppi studiosi delle forme e delle strutture appartenenti alle generazioni successive, per asettico dovere di laboratorio. Nel dettaglio stilistico cercava il segreto della riuscita estetica, e anche un senso complessivo, utile alla vita: fedele, in questo, all’esempio di Leo Spitzer; e anche a una mai rinnegata formazione crociana, o post-crociana (suoi maestri, alla Normale, sono stati Luigi Russo e poi Mario Fubini), che a fine Novecento poteva apparire retaggio attardato, ma si rivela oggi, al consuntivo, meno caduca di tanti dogmi metodologici d’importazione.

PER IRRIDENTE opposizione agli «ismi» critici di volta in volta dominanti, Blasucci si definiva con autoironia «critico liceale»: capace cioè di spiegare nel modo più semplice la costruzione e la lettera della poesia (metrica, lingua, struttura); e di mirare all’essenziale, che per lui era sempre nel testo, non nelle categorie filosofiche, sociologiche, psicologiche convocate, più o meno pretestuosamente, per interpretarlo.
Forse il suo capolavoro rimane la pionieristica Lettura e collocazione di “Nuove stanze” (1974), che individua con insuperata lucidità gli snodi dell’opera in versi di Montale, dal simbolismo degli Ossi alla letteralità epifanica delle predilette Occasioni, al manierismo della Bufera. All’analisi del testo (la «lettura»), Blasucci accompagna sempre, infatti, un’attenzione al contesto (la «collocazione»): senza determinismi storicistici, ma con puntuale attenzione alla storia (della lingua e dei generi) e all’evoluzione della poetica e del pensiero degli autori.

PER QUESTO nel suo pantheon critico, accanto ai maestri della stilistica, riservava un posto d’onore a Sebastiano Timpanaro: uno studioso molto diverso da lui, ma con cui aveva una profonda, ancorché quasi paradossale, sintonia umana e perfino ideologica.
Insieme a alcuni altri fra i saggi montaliani (si leggono ne Gli oggetti di Montale, per il Mulino nel 2002, e ora per Ledizioni: bellissima per esempio la lettura di Casa sul mare), insieme al classico studio su Leopardi e i segnali dell’infinito (nel volume omonimo, sempre per il Mulino), ai lavori sull’ottava di Ariosto e sul tempo nel Purgatorio di Dante (Studi su Dante e Ariosto è il primo libro di Blasucci, per Ricciardi nel 1969: amava il Purgatorio più dell’Inferno e del Paradiso, perché amava la vita, nella fragilità mutevole del suo trascorrere), il saggio su Nuove stanze fa parte di quel ristretto numero di pagine critiche che ogni studente di lettere, ogni insegnate di letteratura, dovrebbe leggere e rileggere; e poi, se ci riesce, emulare.

LUIGI BLASUCCI è stato infatti il più grande critico stilistico del Novecento italiano: poco incline alla polemica militante, per carattere schivo e soprattutto per disdegno delle mode culturali, non ha avuto in vita né il potere accademico, né l’effimera presenza mediatica che alcuni suoi colleghi hanno spasmodicamente cercato. Ma ogni volta che ha preso posizione, anche marcando, con garbata fermezza, una distanza dalle tesi di studiosi che pure ammirava, ha avuto ragione: per esempio sul ruolo decisivo dell’oggetto povero crepuscolare nella genesi dell’universo poetico di Montale – contro l’enfasi di Mengaldo sui debiti dannunziani; o sull’opportunità di studiare ogni fase, ogni testo e perfino ogni verso della poesia di Leopardi iuxta propria principia, nel rispetto della diacronia e in dialogo costante con il pensiero filosofico dell’autore – contro l’astratto «sistema» della variantistica di Contini, e contro il pregiudizio, di deteriore ascendenza crociana, che isola e privilegia una presunta lirica ‘pura’.

Non era solo un tecnico delle forme e dello stile: l’ironia sorniona del suo sguardo azzurro disarmava chi lo spingeva sui terreni poco amati della teoria e delle scienze umane; e alla fine l’interlocutore era costretto a riconoscere che il giudizio storiografico e culturale più esatto, più complesso e esaustivo, ancorché formulato in economia di riferimenti à la page, era sempre il suo.