Lars Norén è morto l’altro ieri a Stoccolma, vittima del Covid. Aveva 76 anni, ed è stato uno dei più grandi intellettuali e artisti svedesi a cavallo tra due secoli. Noto agli inizi come poeta, ha scritto romanzi ma è solo attraverso il teatro che il suo nome ha varcato i confini del suo paese (è curioso come da poco tempo anche uno dei suoi «epigoni», Jon Fosse, sia passato dal teatro, che l’aveva fatto conoscere, al cinema). Una stima e anche molte passioni in tutto il mondo, che ne hanno fatto l’esponente forse più noto di quella cultura. Di cui è stato un formidabile divulgatore e «rivelatore», fin nei suoi aspetti più oscuri, contraddittori e critici, per le platee di diversi continenti. In parallelo col suo progressivo spostarsi, nei temi e nella narrazione, dal piano individuale e familiare a quello più esplicitamente politico.

IL TEATRO ERA DIVENTATO la sua lingua e la sua arma, per affrontare e smascherare via via i nodi irrisolti della convivenza, da quella asfittica della famiglia alla evoluta e «democratica» organizzazione sociale scandinava, e quindi alla dimensione universale di violenza, sfruttamento, sopraffazione. Al momento della sua scomparsa, viene il rimpianto di non averlo conosciuto e frequentato di più, anche se molti suoi testi sono stati rappresentati in Italia, suscitando sempre un interesse crescente, ma purtroppo inferiore a quello che avrebbe meritato, e anche allo spessore degli spunti che avrebbe potuto offrire al pubblico e agli artisti italiani. Franco Quadri e Annuska Palme Sanavio (editore e traduttrice) sono stati da noi i suoi profeti, rendendo possibile la pubblicazione di diverse sue opere; così come artisti giovani e coraggiosi hanno avuto la curiosità e il merito di proporcene la messa in scena: da Arturo Cirillo a Lorenzo Loris, e più recentemente Carmelo Rifici al Piccolo, una decina di anni fa. Senza dimenticare una intensa rappresentazione da parte di Sandro Sequi.

PROPRIO FRANCO QUADRI (che ne ha pubblicato i testi da Ubulibri) ricostruiva il suo asse artistico ascendente nella linea che da Strindberg attraversa il novecento fino a noi attraverso il teatro e il cinema di Ingmar Bergman, ma che ha un altro «ramo» parallelo e di prim’ordine nell’americano Eugene O’Neill. Il cui ultimo testo, Lungo viaggio verso la notte, ebbe il proprio debutto assoluto proprio al Dramaten di Stoccolma, ripreso poi anche da Bergman in quella fucina pazzesca di ingegni e artisti, tra cui va ricordata, oltre agli attori famosissimi, anche una indomita Gunilla Palmestierna, vedova di Peter Weiss. E proprio da quel testo di quel premio Nobel, partivano i Tre quartetti (sempre due accoppiate i personaggi), una trilogia che dalla vecchiaia dei coniugi O’Neill prendono avvio: La notte è madre del giorno (quello più noto da noi), Nostre ombre quotidiane, Autunno e inverno, tre gradini di «ascesa»” agli inferi che smascherano ogni apparenza di civile socialdemocrazia. E quella svedese del resto, Norèn ha sempre più lavorato a smascherare. Anche facendo ricorso alla conoscenza e frequentazione di intellettuali e artisti critici. Anche italiani, da Primo Levi (di cui realizzò una versione teatrale di Se questo è un uomo) a Franco Basaglia, il cui famoso e fondante titolo di una nuova psichiatria, tenne in italiano per una sua creazione: Morire di classe. E si ricordano, tra gli altri testi dell’autore svedese, quello dedicato all’assassinio sfacciatamente «politico» di Anna Politkovskaja, o quello che racconta la follia suprematista dello studente che fece una strage dei suoi compagni di scuola in nome dei suoi nostalgici deliri.

A LARS NOREN va insomma il merito di essere riuscito, con la concretezza della scrittura drammaturgica (sempre studiata, a volte addirittura sulle caratteristiche degli attori che quei ruoli avrebbero poi interpretato in palcoscenico) a trasfigurare i modelli «sacri» del 900 teatrale, Brecht e Artaud, col pensiero nuovo di Foucault e Basaglia appunto, come è stato scritto. Un lavoro geniale e commovente quasi, che ora ci lascia in eredità, vera frontiera di senso e di linguaggio per le nuove generazioni e per il nuovo teatro.