Josip Osti, poeta nato a Sarajevo nel 1945 e morto a Tomaj (Carso sloveno) sabato scorso dopo una lotta di sette anni contro un tumore, è stato uno dei più importanti poeti jugoslavi della generazione emersa tra gli anni Settanta e Novanta del secolo scorso, ma attivissimo ancora nello spazio balcanico – e non solo – dopo la dissoluzione del suo Paese. Capace di scrivere in serbo-croato come in sloveno, in queste lingue non trovava una patria ma una contestazione, nell’uso quotidiano e poetico, di quell’eccesso di patria e patrie di cui il suo mondo è stato vittima.

IN UNO DEI SUOI TESTI più celebri, «Sono un albero che cammina, corre, vola» (poesia raccolta nell’antologia con testo originale a fronte L’albero che cammina, Multimedia edizioni, 2004; traduzioni di Jolka Milic, morta in inizio 2021) Osti così scrive: «Sono un albero che cammina, corre, vola…/ Un albero che cammina sulle mani e si contempla/ nello specchio del cielo. Che corre nudo/ tra i prati, tra due realtà e due sogni./ Che una volta vola sopra Sarajevo e la seconda/ sopra Tomaj. Che tranne l’amore assurdo,/ non ha né patria né paese natío. Che anche/ quando germoglia e fiorisce, non smette di/ appassire e di morire». L’amore assurdo è stata la sua unica patria, e la ragione della sua poesia amaramente condita, negli ultimi decenni, dallo scandalo della guerra.

Guerra come orrore ma anche come forza ciclica: «Dopo/ la guerra costruiamo la casa… Giorno e notte,/ anche se ci rendiamo conto che stiamo costruendo/ le macerie di domani» (in L’albero che cammina). A interrompere e a contestare il ciclo della guerra (lo scandalo che non scandalizza) è il ciclo dell’amore, intimità e irruzione dell’inedito, amore celebrato soprattutto in Tutti gli amori sono straordinari/ Vse ljubezni so nenavadne (Multimedia edizioni, 2016), Chagall in copertina, e Barbara e il barbaro/ Barbara i barbor (Multimedia edizioni, 2020 – una delle ultime opere curate, tradotte e pubblicate da Jolka Milic). Nella prima di queste raccolte assistiamo al prevalere graduale del titolo sul testo (si veda «Allora avevo cinque anni», oppure «Sta invecchiando»); eppure il testo resiste a tanta invasività e dice cose da cui Osti non tornerà mai indietro: innanzitutto la potenza di ciò che è usuale (basti un titolo: «Un altro pomeriggio consueto in cui tutto è straordinario») e poi la bellezza infinita di un altro consueto-straordinario, è cioè l’eros, nella carnalità di un amplesso di gioia: «nudi sul letto/ sulle bianche lenzuola gocciola il vino rosso// il tenue rossore di ciliegie precoci / ci imperla i volti» (in «Non abbiamo abbassato le tende,/ non abbiamo spento la luce»).

CON OSTI SE NE VA uno dei più grandi poeti dell’umanità scomparsa, dei rapporti leggeri e, al tempo stesso, della testardaggine a vivere una vita piena, quando i gerarchi d’ogni razza tendono a servirsene o a farla a pezzi. Ricordiamo infine che fu protagonista di molte edizioni degli Incontri internazionali di poesia di Sarajevo (dal 2002 al 2011), dedicati a Izet Sarajlic e promossi dalla Casa della Poesia di Baronissi (SA), e cioè da Sergio Iagulli, Raffaella Marzano e Giancarlo Cavallo: di questa famiglia faceva parte, qui in Italia, insieme a Sinan Gudzevic e Marko Kravos; e che fu protagonista della letteratura slava (i suoi testi sono tradotti nelle principali lingue dell’Europa orientale), di cui è e sarà figura indimenticabile. La sua casa-giardino-libro, a Tomaj, è tutto questo: un incrocio di esperienze/parole e un annuncio di futuro. Tomaj: il paese, vicino a Trieste, dove nacque Srecko Kosovel (1904 – 1926), grandissimo poeta sloveno d’avanguardia politica e letteraria.

In questo paesino cose importantissime sono accadute: la vita e la poesia di due umili giganti. Giganti appartati, Kosovel e Osti, la cui lontananza dalle trionfanti mode letterarie si traduce in gloria infinita. Anche nella morte, e nell’ironia. Scrive Osti: «Il lavaggio del morto. Attenta che la schiuma non penetri nei miei occhi», scrive in uno degli ultimi testi di Barbara e il barbaro, in cui alla fine concede che «le prefiche si abbandonino pure/ al dolore cantando». Se rito dev’essere, che sia, in rinascita.