Se n’è andato Flavio Bucci, scontroso, irriverente, esagerato. Un infarto lo ha portato via. Lo hanno trovato così, a Passoscuro, dove il sindaco gli aveva offerto ospitalità da qualche tempo. Lo diceva nelle interviste che non gli importava di morire. Per lui ha sempre contato vivere. E lo ha fatto, intensamente, a modo suo, senza rimpianti.

NATO A TORINO, nel 1947, da una famiglia immigrata molisano-pugliese, ha cominciato molto presto a scalpitare puntando sulla recitazione. All’inizio studia presso il teatro Stabile di Torino, poi il salto nel cinema grazie a Gian Maria Volonté che lo ha preso in simpatia, lo trascina a Roma e lo presenta a Elio Petri. Il regista evidentemente nota quella faccia sofferente, quegli occhioni che sembra vogliano uscire dalle orbite e soprattutto ne coglie il talento bizzarro. Così, prima lo recluta proprio come amico di Lulù in La classe operaia va in paradiso, poi in La proprietà non è più un furto dove Bucci è diventato il protagonista come Total. Poi sono in tanti a volerlo. Nel corso dei primi anni di attività, giusto per citare dei nomi, lavora con Valentino Orsini, Giuliano Montaldo, Dario Argento, Marco Tullio Giordana, Mario Monicelli, Gabriele Salvatores. Statisticamente in carriera Bucci ha partecipato a una sessantina di film, arrivando anche a collaborare con Paolo Sorrentino per Il divo.
Ha fatto anche alcune indimenticabili puntate nel doppiaggio, per esempio come Tony Manero in La febbre del sabato sera.

MA L’INTERPRETAZIONE che lo ha reso conosciuto e famoso è quella della miniserie diretta da Salvatore Nocita: Ligabue. Il volto scomposto di Bucci e la sua fisicità hanno contribuito a far apprezzare il pittore naif della Bassa a un pubblico grazie all’impatto televisivo. Era il 1977, e c’è qualcosa di inquietante nel fatto che Bucci sia uscito di scena quando sta per irrompervi un altro Ligabue, interpretato da Elio Germano nel film di Giorgio Diritti in uscita a fine mese dopo il festival di Berlino. Si sprecheranno fiumi di inchiostro per comparare due lavori incomparabili, se non per il fatto che si ispirano entrambi alla stessa sofferente figura del pittore Antonio Laccabue, poi trasformato in Ligabue, non nel nuovo titolo forse perché oggi prevale Luciano su Antonio.

INFINITI sono stati anche gli sceneggiati o le miniserie in cui è apparso Bucci che dopo Ligabue è stato anche Don Sturzo, il commissario Ingravallo (da Carlo Emilio Gadda), e ancora La Piovra, I promessi sposi.
Non da meno la sua presenza in teatro segnata da classici e lavori più sperimentali. Quella di Flavio Bucci è stata una vita intensa in cui, per sua stessa ammissione, ha dissipato una fortuna tra alcol e coca, non con le donne, non ne aveva bisogno. Per questo gli ultimi anni sono stati più complicati, con interventi volti a chiedere di dargli una mano, economicamente parlando. Ma Flavio Bucci forse non avrebbe amato le tristezza, per questo ci piace ricordare una sua frase che forse suona come epitaffio perfetto: «Ho amato, ho riso, ho vissuto. Vi pare poco?».