La scomparsa di Enzo Collotti non priva soltanto la disciplina storica di un maestro per generazioni di studiosi che si sono avvicinati allo studio del passato ma soprattutto sottrae al dibattito pubblico una voce ed un’intelligenza di rara lucidità e profondità analitica come mostrano anche i suoi tanti interventi su il manifesto nel corso degli anni.

L’ATTUALITÀ del lascito dei suoi studi appare oggi tanto più centrale, come fattore di informazione e formazione del pensiero, quanto più evidente si mostra lo scadimento della dialettica interna alla sfera pubblica nazionale attorno ai temi della struttura e della forma della democrazia; dell’eredità del portato valoriale della Resistenza come radice d’origine e fondamento della Repubblica costituzionale italiana; della lettura del fascismo come fenomeno storico, sociale e politico e come «questione» scientifica del presente; della composizione di linee interpretative opposte alla propaganda revisionista figlia della trentennale campagna politico-mass-mediatica post-1989 (volta alla riduzione, edulcorazione e normalizzazione del fascismo) e contestualmente non schiacciate sulla retorica «dell’eterno ritorno» ricavata in maniera semplificata dalla strumentalizzazione degli scritti di Umberto Eco degli anni Novanta (molto lontani nei loro contenuti e nel loro senso dall’uso e dall’abuso che se ne fa oggi).

GLI SCRITTI di Enzo Collotti restituiscono elementi nodali che rendono possibile la ricerca, lo studio e l’elaborazione di un concetto generale del fascismo organizzato su un «sapere materiale» e su una conoscenza reale del fenomeno che porta a distinguere la rappresentazione idealtipica del fenomeno da quella realtipica. L’idealtipo si riferisce ad una misura astratta (ideale appunto) e per questo applicata ed applicabile ad ogni forma comparativa con il presente e per lo più utilizzata come argomentazione elusiva delle afferenze oggettive espresse da movimenti epigoni dell’oggi.

Il realtipo al contrario fonda la sua sostanza sulla realtà materiale del fascismo così come questo si è storicamente espresso sia nel suo luogo di nascita (l’Italia) sia nei paesi dove è stato esportato o emulato in forme più o meno similari. È questa una sistematizzazione che, offerta da Enzo Collotti, tiene insieme teoria e prassi, analisi d’insieme e «verifica sul campo». Qui risiede il fondamento del suo utilizzo nel tempo presente e la sua attualità.

PRIMA ANCORA che dei risultati del suo studio scientifico attorno alla dicotomia fascismo-antifascismo o allo sguardo sulla storia delle «due Germanie» come chiave di lettura interna ed internazionale della più complessiva vicenda europea siamo debitori a Collotti di almeno altre due indicazioni: da un lato la questione enorme, al fine di comprenderne le persistenze profonde nella società di oggi a quasi cento anni dalla «marcia su Roma», della commistione e compromissione della società italiana con il regime di Mussolini in ordine alle responsabilità delle classi dirigenti e proprietarie del Paese non solo rispetto al sostegno alla dittatura durante il ventennio ma soprattutto ai limiti – da esse stesse imposti- al processo di rinnovamento nel corso della transizione alla democrazia del secondo dopoguerra.

DALL’ALTRO LATO l’indicazione del fattore della «rimozione» come anticamera del revisionismo e dell’involuzione regressiva non solo del discorso pubblico ma del processo formativo delle giovani generazioni anagraficamente sempre più distanti dalle memorie della guerra mondiale e della notte fascista.

«Alle giovani generazioni – scriveva Collotti su il manifesto in occasione dell’anniversario della Liberazione del 25 aprile 2019, solo due anni fa – rischiamo di consegnare un passato senza alcun punto di riferimento, senza orizzonti. La storia come attitudine critica e premessa alla critica del presente è sempre stata la bestia nera di tutti i comportamenti autoritari. L’annullamento della storia è una delle condizioni che consentirebbe il dilagare dei comportamenti svincolati da ogni pregiudiziale ideologica o etica. La tenuta della democrazia è strettamente legata alla condivisione di valori fatti propri nella pluralità delle espressioni dalla stragrande maggioranza della popolazione».

ATTORNO al rapporto tra racconto del passato e società dei media, infine, il grande studioso non ha mancato di individuare la leva dell’uso e dell’abuso distorsivo della storia con quest’ultima che «si impone all’attenzione pubblica attraverso il cortocircuito della politica» configurando così un processo disfunzionale alla stessa democrazia.

È lì che risiede il compito dello storico come soggetto in grado di recuperare i termini della conoscenza e contribuire alla costruzione della cultura e della memoria pubblica. Ciò nella consapevolezza della necessità dell’impegno pubblico in prima persona nella battaglia delle idee, perché «l’oggettività dello storico non equivale alla sua asetticità».