Faccio fatica a scrivere, mi sembra di essere diventata un uccello del malaugurio, o forse un becchino: troppi, ormai, sono i miei scritti in morte dei compagni, o forse troppe sono le morti che stanno affliggendo la comunità de il manifesto e tocca a me, in qualità di più vecchia, ricordare.

Ricordare chi ha vissuto fianco a fianco con noi fino a poco tempo prima, sì da rendere la loro scomparsa un evento difficile persino da percepire. Perché sebbene gli esseri umani muoiano da sempre, noi non ce ne siano ancora fatti una ragione e ogni volta ci sembra impossibile e inaccettabile. Disperante se sono giovani come Angela, ma in fondo anche quando sono molto più vecchi come Valentino.

Questa volta riprendo la penna per piangere un compagno che ricordano forse solo i più anziani, ma che è stato vicino al nostro giornale da sempre, un compagno straordinario e un amico carissimo. Parlo di Elmar Altvater, mancato l’altro ieri dopo che da due anni la brutta malattia gli aveva tolto le corde vocali, ma lui, che era un vero combattente, con mille sforzi e incalzato dai dolori che l’avevano subito attaccato in altre parti del corpo, era riuscito ad imparare in poco tempo la lingua di pancia che aiuta in qualche modo chi non ha più la voce. E così avevo potuto ancora chiacchierare con lui a febbraio a Berlino, sebbene con grande melanconia. Speravo di rivederlo ancora al Congresso Internazionale per i 200 anni di Marx promosso dalla Fondazione Rosa Luxemburg, e invece ho solo potuto ascoltare il ricordo addolorato che qui gli è stato dedicato all’inizio dei lavori.

Elmar era stato a lungo a capo del dipartimento di scienze politiche della Freie Universitaet di Berlino, ora professore emerito: un economista conosciuto in tutto il mondo.
Ma Elmar è stato molto di più: un tedesco raro, perché lontano dai settarismi della vecchia sinistra tedesca ma insieme mai indulgente nei confronti dell’anticomunismo così facile da incontrare in questo paese. Un militante politico appassionato, e che però non aveva mai voluto assumere incarichi istituzionali, restando sempre impegnato nel suo prezioso lavoro di studioso. Aveva cominciato alla fine degli anni ’60 nel Sds, il gruppo che fu di Rudi Dutschke, poi continuato nel Socialistisches Buero, una associazione di compagni che svolse negli anni immediatamente successivi al ’68 un ruolo prezioso, quando non era ancora caduto il Muro, i verdi non ancora in scena, i comunisti dell’ovest una setta.

Ai verdi fu poi vicino, ma non per molto: dopo la loro svolta moderata si schierò a fianco della Linke. La vera rottura avvenne per le posizioni assunte sul Kosovo dal governo Spd-Verdi.

Per molti decenni la rivista da lui diretta, Problemen der KlassenkapfProcla» – come veniva chiamata), un mensile che ha raccolto il meglio del pensiero marxista non dogmatico, è stato un punto di riferimento importantissimo.

Ma la cosa più importante che Elmar ha fatto è stata quella di aver offerto con molta anticipazione la più autorevole analisi marxista della questione ecologica, imponendola alla riflessione accademica e militante. E di avere contribuito moltissimo a orientare su questa tematica anche i sindacati tedeschi con cui ha sempre collaborato.

I suoi libri sono numerosissimi, tradotti sempre in inglese, mai, purtroppo, in italiano. Nonostante avesse collaborato a molti nostri giornali e riviste. Colpa nostra. Perché con l’Italia Elmar Altvater ha sempre avuto un rapporto stretto. Fin dall’inizio, quando fu grazie a lui che a Berlino, appena uscite, furono tradotte e presentate in affollate assemblee studentesche, le Tesi sul Comunismo del Manifesto. E poi coinvolto nel lavoro terzomondista della Fondazione Basso, di cui è stato anche vicepresidente.

Fino all’ultimo – mi racconta la sua compagna Brigit Mahnkopf, coautrice di molti dei suoi libri, anche lei economista – ha cercato di esprimersi per portare a termine un articolo per il Socialist Register che stavamo scrivendo assieme. Non voleva nemmeno prendere in considerazione l’ipotesi della morte, cui ha cercato di resistere fino all’ultimo. E così ha perso conoscenza senza che nemmeno ci salutassimo.