«Il grande ‘Tubo’ di Mattiacci sale lungo le scale che portano alla galleria, invade e compie le sue evoluzioni nell’intera sala, esce dalla porta in fondo e si perde in una stanzetta secondaria». Così Mario Diacono, sensibile ed esigente compagno di strada di artisti e poeti, descriveva l’entrata dell’opera di Eliseo Mattiacci a La Tartaruga, la galleria di Plinio De Martiis tempio dell’avanguardia a Roma.

ERA IL 4 MARZO DEL 1967 – importante sottolineare il mese e il giorno di quell’anno segnato da una coralità di gesti radicalmente innovativi – quando Mattiacci, allora ventiseienne e già accreditato nel milieu dell’arte, sfoderava il suo tubo giallo Api. Un capolavoro di forze espresse, connesse e bilanciate. Il Tubo, ora proprietà de La Galleria Nazionale, che abbiamo visto tante volte giacere in felici allestimenti (per ultima la mostra che Firenze ha dedicato all’artista curata da Sergio Risaliti), dobbiamo figurarcelo facendo qualche concessione a una mitologia che Mattiacci non ha mai contribuito ad alimentare. Ha l’aspetto scontato di un oggetto d’uso, un colore che in pittura trasmette l’energia del sole e nell’immaginario dell’epoca anche la forza di un motore iniettato di benzina Api (il giallo è quello che figurava nella pubblicità del carburante). Ma oggetto, forma e colore nel loro insieme non sono l’opera, la quale, in ultimo, si avvalse dell’apporto di una pluralità di forze. Quelle degli amici e degli artisti sodali con i quali Mattiacci animò il tubo. Espressione di vitalità collettiva, manca poco al 1968, il tubo occupò la strada percorrendola. Fardello felice, peso leggero, luminoso. Il cavallo di Troia di una generazione che avrebbe cambiato le regole del gioco (nella società come nell’arte). Non è rigido (come un pensiero ideologico). È sinuoso, può flettersi o curvarsi, entra nelle stanze, gira per le scale, si dilata nello spazio senza frantumarsi. È orizzontale plurale e collettivo.

A poche ore dalla scomparsa di Eliseo Mattiacci, deceduto l’altro ieri notte, all’età di settantotto anni, dopo una malattia che lo affliggeva da tempo, con accanto l’amore della figlia Cornelia e della moglie Silvia Mancini, con dolore e rimpianto non resisto alla tentazione di interrogarmi sulla sua eredità. Molti sono gli storici dell’arte e i critici che hanno riflettuto sul suo lavoro. Davanti alla porta dei critici Mattiacci aveva piazzato una carica di dinamite, ma sull’altra faccia della medaglia della critica d’arte affiora il profilo dell’amicizia e nel saper coltivare questo sentimento Eliseo Mattiacci era imbattibile. Dalla sua parte pertanto, ebbe studiosi d’eccellenza, da Fabrizio D’Amico a Bruno Corà e a Germano Celant fino a Lara Conte esegeta emersa tra le fila delle più giovani generazioni. Nei loro scritti e in quelli di molti altri, si delinea con chiarezza l’originalità di un artista che è tra i massimi esponenti della cultura visiva italiana del secondo Novecento.

Quando a cavallo tra il 2016 e il 2017 Gianfranco Maraniello dedicò a Eliseo Mattiacci una bella mostra al Museo di Rovereto e mi chiamò a collaborare al catalogo, fu l’ultima volta che visitai con l’artista il suo studio di Pesaro, la città vicina alla natia Cagli dove si era trasferito dopo un lungo soggiorno romano. Fu allora che vidi un gruppo di sue sculture intitolato Sospensione del 2011. Questo gruppo, se idealmente affiancato al Tubo del 1967, forma un arco voltaico perfetto – per evocare una figura cara all’amico Gilberto Zorio – lungo il quale veder scorrere, distillata, l’originale missione di Mattiacci. Sospensione sono sei grandi sfere in tondino di alluminio, costruite giustapponendo cerchi dello stesso diametro come in una sfera armillare. Tanti anelli, con al centro un piano oppure una spirale. Figure semplici a vedersi ma complesse nel loro rispondere, ciascuna a suo modo, alle sollecitazioni esercitate sul corpo unitario di cui fanno parte.

IL GIOCO era quello di afferrarle e di lanciarle nello spazio del grande studio vuoto al centro. Roteavano rispondendo alla spinta con moto immediato ma con traiettorie tendenzialmente impreviste. Che bella sensazione era sollevare senza sforzo quei grandi corpi che somigliavano a pianeti. Sfere, a ogni modo, lanciate nello spazio. Non lo spazio abitabile e misurabile una volta per tutte, ma uno spazio anche sconosciuto o non ancora visibile che le sfere, inaspettatamente, svelano (uno spazio reale che ha l’imprevedibilità di un disegno).
Esplorazione, come è noto, è una parola familiare al lavoro di Mattiacci. Anche il tubo giallo esplorava la via e poi le stanze della galleria. L’esplorare di Mattiacci non sono fatiche ripetitive e muscolari né, all’opposto, trasognate visioni. Preferì rilevare le forze in campo. Ne ha sperimentate diverse, quella di gravità ad esempio o magnetica, protagoniste di molti suoi lavori. Con esse ha interagito – spesso condividendo con altri l’azione – non per rassegnarsi alla loro tautologica evidenza, ma per dimostrare, così pare, la possibilità di un equilibrio tra agenti diversi. Equilibrio, assumere una posizione bilanciata, non sono condizioni frequentemente celebrate nell’arte contemporanea che ha preferito l’affondo degli estremi (il rischio del funambolo, semmai, e non lo spettacolo di una massa in statico equilibrio). Allora grazie Mattiacci per aver tracciato le rotte di mille esplorazioni possibili, nessuna finalizzata a chiudere lo spazio, colonizzarlo, misurarlo, ma tutte condotte, con spregiudicato e giocoso senso dell’avventura, con la speranza di trovare le leggi sublimi dell’equilibrio.