Le canzoni di Claudio Lolli sono  state la colonna sonora di una generazione dolce e ribelle, che è stata anche la mia, con lui se ne vanno un po’ dei nostri sogni e parte della nostra tenerezza, che è stata più forte della violenza che ci ha travolto, della nostra rabbia contro la stupidità del mondo.

Da Aspettando Godot fino al Grande freddo la sua è stata la condotta coerente e il conio del nostro unico vero chansonnier, un’anomalia nel panorama italiano, letterario e colto, i suoi dischi spesso nascevano dai romanzi o dalle poesie (con un poeta affine, Gianni D’Elia, aveva a lungo collaborato), la voce inquieta che raccontava i vinti dalla vita, i sognatori, i pazzi, gli zingari felici, la gioventù fragile e ribelle che siamo stati, «vite e tormenti di persone strane», intonava le marcette politiche e ironiche de La socialdemocrazia, quando il PCI cominciava a far suo il pensiero del nemico, diventando persino peggiore di quello storico, lui bolognese, che in quel mondo era nato, il Gramsci di Quello lì, «con la sua strana testa grossa, l’aria di uno che ha freddo nelle ossa», quelle della Piccola borghesia dell’italietta, ma anche le più intime Angoscia metropolitana, La giacca, La morte della mosca, Ti racconto, la struggente Michel.

Sono tante, bellissime, le ho cantate tutte, le ho ascoltate tutte, tante volte, ho avuto il privilegio di sentirle sussurrate da lui a casa mia o sull’aia adiacente alla casa colonica di Fermo dove c’eravamo radunati per ascoltarlo insieme a Paolo Capodacqua, la sua chitarra e il suo compagno di strada e di vita per molti anni, che erano partiti per il loro tour proprio da qui, dove si erano incontrati. Sempre mite, appartato e anti-spettacolare, un ossimoro per un cantautore, per molti di noi ha accompagnato prima le stagioni della lotta, delle vite nomadi e trasgressive degli anni settanta, poi quelle del ripiegamento esistenziale e della sconfitta (Disoccupate le strade dei sogni), sempre con lucida e rigorosa precisione formale, con la fierezza delicata degli sconfitti, di quelli che non si piegheranno mai a nessun stupido potere di questo mondo, con una malinconia che era profondissima postura esistenziale e lirica, una cifra inconfondibile della sua poetica.

Anche nelle canzoni d’amore è stato il più grande, Quello che mi resta a riascoltarla adesso oltre l’aria di un classico ha quella più alta di un piccolo capolavoro. Claudio aveva vissuto la sua stagione alta con coerenza e militanza, e uscito da quella brevissima e fulminante degli anni settanta, di cui è stato il cantore assoluto, non aveva mai ceduto alla società dello spettacolo, quella dei grandi eventi, degli stadi, per lui, così colto e sensibile, sarebbe stato impossibile diventare qualcosa d’altro; invece, aveva continuato a scrivere e cantare per un pubblico di affezionatissimi che continuava a seguirlo in ogni dove.

Negli ultimi tempi, come Brel e Brassens, la parola, le strofe delle sue canzoni avevano preso il sopravvento, lui che era stato anche scrittore di racconti e romanzi, e dentro una costellazione che mette insieme tutta la cultura prodotta a Bologna dagli «anni giovani«, quella di Bifo, Andrea Pazienza, Claudio Piersanti, Freak Antoni. A Bologna aveva dedicato Piazza, bella piazza, canzone del movimento, Bologna era quella degli Zingari felici. Aveva interpretato i nostri sogni come tutti i veri e grandi poeti, ma come cantava «è vero che i poeti ci fanno paura/perché i poeti accarezzano troppo le gobbe,/amano l’odore delle armi/e odiano la fine della giornata./Perché i poeti aprono sempre la loro finestra/anche se noi diciamo che è/una finestra sbagliata».