Tra gli esploratori di suoni nello spazio, di suoni con dispositivi tecnologici in movimento insieme ai corpi umani, di suoni che si trasformano diventando altro pur essendo fatti della loro materia fisica, Alvin Lucier, morto il 1 dicembre a novant’anni, era il più radicale. Aveva lavorato in gruppo con Rober Ashley, Gordon Mumma, David Berhman, compagni anche nella «scuola» Lovely Music (qualcosa di più che un’etichetta discografica) durante gli anni ’70. Era il più estremo, se vogliamo dirla così, e invece non è la parola giusta. Era il più diretto nello sperimentare le possibilità – o gli esiti imprevedibili – dei suoni messi a contatto con altri elementi, la luce per esempio, come in una performance che ce lo rivelò nei tardi ’70 a Lugano, lui in scena a muoversi lentamente in cerca di risposte sonore e di risposte luminose dallo spazio ristretto di un teatro. O a contatto con le riverberazioni esterne/interne (perché c’è sempre un «interno» del suono ed è forse la cosa più importante) prodotte da un ambiente. Come – a proposito di ambiente, di luoghi, di tipi di spazio – nella celebre I Am Sitting in a Room (1970), dove un testo pronunciato dal compositore stesso viene tantissime volte registrato e ri-registrato fino a quando la stanza («è una stanza diversa da quella dove siete voi», dice il testo) rivela (o rivoluziona fino a diventare altro? il compositore avrebbe dato la prima risposta) un impasto di suoni che non sono più la voce del recitante ma un qualcosa che si potrebbe scambiare per musica elettronica pura e invece è quella stessa voce.

IN UN’OPERA come Stille and Moving Lines of Silence in Families of Hyperbolas (1983) Lucier utilizza una vocalista (Rebecca Armstrong) e tre strumentisti (il cornista James de Corsey, la flautista Susan Palma, il clarinettista Thomas Ridenour) più oscillatori di onde sonore. Si ascoltano sonorità «naturali» di voce e strumenti famigliari? No, si ascolta «quello che potrebbe essere» un suono. Questa delle possibilità, dell’azione volta a creare un’altra esistenza dei suoni non è una chiave interpretativa suggerita dall’autore Lucier. Anzi. Lui per un lungo periodo della sua vita ha solo parlato di evoluzione e di messa in mostra della materia di cui è fatto un suono. Un po’ scientista nelle dichiarazioni pubbliche, ma tutt’altro che scientista nei prodotti musicali. Che sono quasi sempre fatti di suoni lunghi, di fasce sonore con dentro qualcosa di molto intimo, di una voluttà del procedere alla scoperta di quel mistero che è il viaggio nei suoni. Viaggio nell’essere, non c’è dubbio. C’è anche un che di dolente nella musica di Lucier.

SI TROVA nelle opere più vecchie e più radicali, se si ascolta bene, e si trova chiaro in opere recenti. Come quei Two Circles, ascoltati in prima assoluta alla Biennale Musica del 2012, in cui il tono è quasi funebre e una linea di «basso continuo», tenuta, è in dialogo delicato con le sonorità ben mote di violino, violoncello, flauto, clarinetto, pianoforte.