«Sono nato nel 1941 a Pistoia, un’antica città di provincia della Toscana (con una piazza meravigliosa di pietra e un battistero a righe bianche e nere), da una famiglia che per settecento anni aveva coltivato la terra in Valdinievole. Di mestiere faccio il professore all’Università, la mia professione è quella dell’architetto, ma la mia vocazione è quella dell’artista.

C’è già tutto in questo poetico e sincero incipit autobiografico che troviamo in uno degli ultimi libri di Adolfo Natalini, pittore prima e «architettore» poi, protagonista di una lunga vicenda insieme umana e professionale, che si è dispiegata tra la pop-art della Scuola di Pistoia, l’avanguardia del Superstudio e l’architettura di resistenza, come la definiva lui, dei Natalini Architetti.

Gli esordi lo vedono infatti a far parte con Barni, Buscioni e Ruffi di quella via tutta toscana alla dilagante onda pop, alla quale approda dopo gli inizi figurativi e poi action painting. Ha una dimensione cromatica sua propria, aspra, nordica, come riconoscerà il critico Cesare Vivaldi, che nutre anche la parallela formazione di architetto. La laurea del 1966, con il progetto di tesi per un Palazzo dell’Arte a Firenze, è un simbolico passaggio di consegne. L’ultima sua personale da pittore prevista alla Galleria Jolly 2 di Pistoia viene convertita in quello che diventerà una delle più celebri esposizioni degli anni ’60: Superarchitettura. E’ l’inizio del Superstudio che insieme ad Archizoom trasforma Firenze nell’incubatore della cosiddetta architettura radicale.

Quello che segue è una storia di amicizie prima che di professione, e di passione per l’architettura, l’arte e soprattutto per la vita. Adolfo Natalini la condivide innanzitutto con Cristiano Toraldo di Francia, con il quale ripara sulla collina di Bellosguardo dopo l’alluvione del novembre 1966 e apre lo studio. Li raggiungeranno Roberto Magris, Piero Frassinelli, Alessandro Magris, Sandro Poli e tanti collaboratori. Nasce una curiosa miscela di seriosa professionalità – al Superstudio si lavorava col camice bianco – e ludica visionarietà. Il tutto attraverso una rete di affetti, amicizie e conoscenze, a partire dalle famiglia Natalini al completo, con la moglie inglese

Frances Brunton e la figlia Arabella, che vediamo in tanti set fotografici e persino nei film girati dal gruppo in un afflato di condivisione di un’idea dell’arte come vita.

Autore di tanti folgoranti testi del Superstudio, oltre che di una infaticabile ricerca grafica che accumula negli anni sulle pagine dei suoi mitici Quaderni neri, Natalini capisce presto che l’esperienza d’avanguardia non può protrarsi ad libitum senza rischiare di trasformarsi in etichetta: “Quando si producevano i progetti e le immagini, gli scritti e gli oggetti dell’architettura radicale, l’architettura radicale non esisteva. Ora che questa etichetta esiste, l’architettura radicale non esiste più.”, scriverà già nel 1977. La presenza del Superstudio alla Biennale di Venezia del 1978 è un ideale testamento spirituale per gli anni a venire. Dall’utopia negativa del Monumento Continuo e le Le Dodici Città Ideali, sino alla meditazione esistenziale della serie di storie e di film de Gli Atti Fondamentali, la parabola del Superstudio si va concludendo.

Per Natalini è un nuovo inizio. A fare da ponte è una ricerca antropologica sulla Cultura materiale extraurbana, che si svolge tra il 74 e l’83 all’interno dei corsi di Plastica Ornamentale tenuti presso la Facoltà di Firenze. Per lui e i suoi compagni di viaggio si tratta di riscoprire la prassi progettuale come fatto concreto, privo di mediazioni culturali, attraverso una antropologia del quotidiano e soprattutto il legame alle tradizioni degli oggetti d’uso nelle culture rurali. Ma soprattutto è un modo di riprendere in mano il proprio destino di progettisti, ripensarlo alla radice, interrogarsi sul proprio ruolo sociale e sulla propria vocazione personale.

“Abbiamo pensato che era finito il tempo della distruzione e che doveva iniziare quello della ricostruzione”. Dagli anni ’80 l’architettura “di carta” del Superstudio lascia il posto ad una serie di esperienze sul campo, di costruzioni nel senso più profondo del termine: relazioni con committenti, imprese, professionalità di vari livelli, comunità. Penso alla sofisticata riflessione sul linguaggio della Banca di Alzate Brianza, all’importante esperienza urbana del Polo universitario di Novoli, al Cimitero dell’Antella a Bagno a Ripoli. Con i tantissimi centri urbani realizzati in Olanda, i Natalini Architetti – con il fondamentale apporto di Fabrizio Natalini, omonimo non parente, come recitano con sagace ironia toscana le biografie – offrono una provocatoria alternativa a quell’ondata di manierismo avanguardistico che affolla le riviste degli anni ’90, tornando ad un grado zero dell’architettura che faccia di nuovo i conti con la tradizione e con la storia, come ci mostrano i due gioielli che ha regalato alla sua Firenze, la Scala di Ponente degli Uffizi e l’ampliamento del Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore, completato appena cinque anni fa.

Il loro messaggio è semplice: “Abbiamo bisogno di architetture appropriate ai luoghi e agli abitanti, resistenti al tempo e alle mode, rassicuranti contro il transito veloce del tempo per proteggerci dalle offese delle stagioni e degli uomini. Abbiamo bisogno di architetture solide, protettive, rassicuranti, di architetture dignitose e civili. Abbiamo bisogno di luoghi la cui forma nasca lentamente nel tempo attraverso i bisogni e i desideri.” Difficile dargli torto.