Agosto 1949. È trascorso un anno e mezzo dalla nascita dello Stato di Israele e il dissolvimento della nazione palestinese. In Negev, il deserto meridionale, l’esercito israeliano pattuglia quello che fino a poco tempo fa era casa di decine di migliaia di palestinesi beduini. È alla caccia di arabi ancora vivi, la cui stessa esistenza è minaccia esistenziale a quella del colonizzatore. Ne trovano, disarmati, sotto l’ombra vivifica di una piccola oasi. Li uccidono. Risparmiano solo una giovane, ma è solo questione di tempo. Il giorno dopo, la stuprano nel campo militare e la uccidono.

Un vago oggi, senza riferimenti temporali. A Ramallah una donna palestinese legge di quella violenza su un giornale israeliano e parte, sulla spinta (o l’ossessione) di un “dettaglio minore”, un’insignificante coincidenza di date, alla volta del Negev e di indizi che possano dare voce alla giovane vittima, o forse alla sua necessità di comprendere le origini di un presente senza fine apparente.

Questa la storia che costruisce Un dettaglio minore, romanzo della scrittrice palestinese Adania Shibli, edito da La nave di Teseo (pp. 144, euro 17) e tradotto da Monica Ruocco. Nota in Italia per il romanzo Masās (Sensi) e la raccolta di racconti brevi Pallidi segni di quiete, Shibli è stata finalista al National Book Award nel 2020 e all’International Booker Prize del 2021.

Un dettaglio minore è una trama di piccoli dettagli, apparentemente insignificanti ma che sono la vera storia dietro la trama palese. Non conosciamo i nomi dei personaggi, del militare protagonista della prima parte della narrazione né della donna “detective”. Di lei non conosciamo il lavoro, l’età, l’esistenza. Il posto di queste informazioni “maggiori” è preso dalla descrizione penetrante di gesti, luoghi, sentimenti, del clima, del colore della notte e del giorno, dei loro suoni. Era il suo obiettivo fin dal principio?
Da tempo mi accompagna l’interesse per le cose ai margini della vita e il modo in cui i margini possano essere uno spazio dove proteggersi, nascondersi, non essere marginalizzati. Quando sei spinto ai margini o la tua vita è marginalizzata o considerata tale, può diventare una strategia salvifica trasformare questa marginalizzazione in una fonte di ispirazione, qualcosa di “maggiore”. Una vita “minore”, che manca cioè di elementi “maggiori”, è la condizione da cui far partire l’immaginazione. Fin da giovane sono attenta ai margini o alle cose che la gente reputa poco importanti. E mi ha salvato, come essere umano, il mio modo di scrivere: non mi considero una marginalizzata ma la mia scrittura si muove in questo spazio.

Della sua attenzione per i dettagli minori parla anche la sua protagonista. Raccontava di sé?
Non necessariamente. Non sono come lei. Amo i miei personaggi e tramite loro creo delle possibilità di me, delle possibilità di noi, delle possibilità di noi come criminali, delle possibilità di noi nel credere che la colpa sia degli altri. Non sono nessun personaggio, ma tento di essere ognuno di loro.

In entrambe le narrazioni, quella che ha luogo nel 1949 e quella di oggi, la geografia dei luoghi è centrale. In particolare nella seconda parte, la geografia è lo specchio dello spazicidio subito dai palestinesi e delle trasformazioni dell’ambiente circostante in questi sette decenni.

I personaggi del romanzo non sono solo quelli umani, anche la natura lo è. Lo si sente quando la natura si materializza nei suoi elementi insieme ai cambiamenti che ha vissuto, cambiamenti che non sono una coincidenza, sono voluti. La natura stessa ha subito una violenza. Lo si vede nel deserto che all’improvviso è interrotto da alberi di mango e avocado. Come reagisce la natura a questi elementi forzati, esterni? E come questa forzatura è vissuta dalla natura? La distruzione dei villaggi palestinesi, la costruzione di colonie, la complicità della natura in queste trasformazioni sono domande che accompagnano il romanzo. Quando non si vive la violenza su di sé o sul proprio linguaggio, quella violenza emerge nell’ambiente circostante, in quello che si mangia, nelle piante che ci circondano.

Le due narrazioni sono legate da elementi comuni: la sabbia, la polvere, l’acqua per toglierla via, l’abbaiare ossessivo dei cani. Che ruolo hanno questi elementi, di nuovo minori, nella storia?

La domanda che mi pongo è: cosa di non umano si allinea a noi, al nostro dolore, alla nostra solitudine? E come la natura e gli animali sono testimoni di questo dolore? È una coincidenza o è una reazione al presente? Due anni fa ero in Australia e ho incontrato pensatori e scrittori aborigeni. Ho osservato una contemplazione della natura mentre noi palestinesi abbiamo un rapporto molto intimo con essa. Non vogliamo semplicemente la terra, è la terra che vuole che ce ne prendiamo cura. È un amore mutuale, lento e gentile, non è annunciato né è uno slogan come avviene spesso oggi in Occidente riguardo al cambiamento climatico: persone improvvisamente divenute avvocate della natura dopo averla devastata per secoli. In Palestina natura e cultura sono profondamente legate. La natura offre conforto, anche quando si è nella peggiore delle situazioni. È normale vedere palestinesi passare del tempo a raccogliere erbe, vivere gli spazi esterni. È vero che negli ultimi dieci anni c’è stato un cambiamento: l’invasione neoliberista seguita agli Accordi di Oslo ha richiesto di trovare nuovi “consumatori” nell’idea che il dolore palestinese potesse essere risolto con il denaro. Questo ha condotto a un’urbanizzazione che deprime le persone, si costruisce cemento che viene distrutto dagli israeliani e poi ricostruito, come fosse il suo destino: costruito perché sia distrutto.

I villaggi beduini non riconosciuti, un edificio a Ramallah fatto saltare in aria dall’esercito israeliano, la limitazione alla libertà di movimento, la paura costante: la “detective” palestinese compie un viaggio dentro la Nakba che continua?

Non era mia intenzione farlo, è arrivato. Perché è lì, è presente e non perché lo hai scelto ma perché continua ad avere effetti sulla tua vita. La Nakba non è un evento terminato di cui viviamo solo le conseguenze, ma prosegue con nuove azioni. È un costante inizio che non finisce. Così passa quasi inosservata. Il mio personaggio quasi non se ne accorge più, ne è abituata. Ma come ci si può abituare? La sua vita è normale, è la più noiosa dei palestinesi. Eppure se i palestinesi prendono in prestito la carta d’identità blu degli amici per andare al mare, lei lo fa per andare altrove, alla scoperta di una storia.

Questo porta alla mancanza di empatia che il militare e la palestinese condividono. Ma nel secondo caso, lei sembra mostrare empatia per una persona: la giovane stuprata e uccisa nel 1949. Se ne sente in qualche modo legata?

Non penso che provi empatia, piuttosto si sente perseguitata. C’è una differenza. Lo si vede nella sua assenza di reazioni durante l’esplosione del palazzo o nell’incontro con la ragazzina venditrice al checkpoint: le offre un fazzoletto solo per liberarsi del suo naso sporco. Cerca soluzioni pratiche alla sua vita e affronta l’evento della giovane beduina uccisa come un lavoro, un dovere, non spinta da empatia. Perché nel momento in cui si concedesse all’empatia, collasserebbe. Il militare arriva alla stessa conclusione da una direzione diversa: se provasse empatia, collasserebbe. Nel suo caso come colonizzatore, nel primo come colonizzata e per lei significherebbe la morte.

Lei scrive sia romanzi che racconti. Come passa dall’uno all’altro? La guidano i temi o il linguaggio?

Ho iniziato con i racconti, da quando sono bambina. Poi un poeta un giorno mi ha suggerito di scrivere un romanzo e mi sono detta “Perché no?”. In letteratura sono aperta e ne sono così sedotta che è bastato che qualcuno me lo chiedesse. I racconti sono sempre i miei compagni, ho bisogno di loro, mi insegnano come vivere. Il romanzo arriva da altro, da qualcosa che mi segue da tempo, una sorta di domanda esistenziale. Con Masās è iniziata con la domanda: qual è la forma di un romanzo? È stato uno sguardo al romanzo stesso. Con il secondo romanzo, non tradotto in italiano, la domanda era la relazione o la mancata relazione tra i personaggi. Con Un dettaglio minore è stato il linguaggio, quello dei potenti e quello di chi non ha potere, e come io, una senza potere, potessi parlare il linguaggio del potente. Queste domande sono pesanti, non possono essere risolte in un racconto. Nel romanzo lo scrivere mi accompagna verso le idee, il contenuto. Ma prima viene la forma. Con il racconto è l’opposto: prima viene il contenuto, poi la forma.

Quali i suoi riferimenti letterari? Cosa legge e cosa rilegge?

Leggo di tutto, fiction e non-fiction, dipende dai periodi. Da quando non ho più un appartamento a Ramallah, non ho più nemmeno una libreria. Tengo solo i libri che non ho ancora letto. Nei miei viaggi, passo sempre un paio di giorni nelle librerie alla ricerca di cose che non conosco. Questo mi ha permesso di scoprire nuove letterature e di avere riferimenti ovunque. Mi piacciono molto i classici prima del XX secolo, ma anche i romanzi sperimentali. In questo momento sto leggendo moltissimo Robert Walser, svizzero, romanziere, finito in un manicomio per 20 anni dove è morto. È affascinante vedere cosa fa con il linguaggio, pianta una o due parole che stravolgono completamente la prospettiva. Ci sono scrittori che una volta letti non ti lasciano più. Lui è presente, ma non è invasivo. Chissà, forse la letteratura di un pazzo è il mio spazio nel mondo.

Come descrive la letteratura contemporanea araba e palestinese in particolare? Quali gli autori e le autrici più interessanti della sua generazione?

Ci sono molti autori palestinesi non tradotti, un’incredibile nuova forma di scrittura realizzata da autori spesso alla loro prima opera ma già di alto livello. Sono molto più coraggiosi nell’esplorare la letteratura rispetto ad altri contesti perché non hanno la pressione di dover stare sul mercato o di dover avere successo. Parlo di autori e autrici come Ammer Hamad, Asmaa Azaizah e Majd Kayyal. Molta letteratura interessante arriva dall’Egitto: amo il poeta Iman Mirsal, ma anche Ibrahim Aslan, ormai scomparso. Dallo Yemen Wajdi al-Ahdal.