Inchiostro pop, ma con una punta di perturbante: è tutto qui il nuovo corso di Sergio Bonelli Editore. Che, al netto di best seller come Tex e Dylan Dog, vanta un presente fatto di mondi fumettistici più complessi e sfumati rispetto ai grandi classici del genere. Un esempio? Adam Wild, da qualche giorno in tutte le edicole: storia di uno scozzese dal baffetto alla Erroll Flynn nella Tanzania del diciannovesimo secolo fra guerre, schiavismo e altri incidenti sul (labile) confine fra realtà e fiction. Ce lo racconta Gianfranco Manfredi, creatore e principale sceneggiatore della nuova serie.
Partiamo da lontano: tu hai debuttato nei comics una buona ventina d’anni fa, dopo una lunga e soddisfacente carriera nella canzone militante, nella letteratura e nel cinema. Come è cambiato il tuo approccio, da allora?
Si impara lavorando. Alla base di tutto c’è l’esperienza, sia quello di buono che si è fatto, sia gli errori, che spesso sono anche più preziosi, perché quello che va bene, va bene, quello che non va bene, va corretto. Riguardo al mio nuovo fumetto seriale Adam Wild posso dire che non avrei mai potuto scriverlo, né realizzarlo senza le precedenti esperienze.

Dopo l’Eritrea di «Volto Nascosto» e la Cina di «Shanghai Devil», con «Adam Wild» porti i lettori nell’Africa nera: mi incuriosisce molto la tua ostinazione nella scelta di ambientazioni complesse e inconsuete.

Ho letto una recente intervista di Ken Follett, in cui lui dice che ogni suo romanzo è frutto (anche) di una scrupolosa documentazione, ma che poi, di questa ricerca, se ne dimentica. Mi sono molto ritrovato in questa affermazione. Quando mi capita di rileggere una storia, per esempio di Magico Vento, scritta molti anni fa, e rileggo le note che la accompagnavano, con citazioni di dati, notizie, segnalazioni di libri e di film, spesso mi domando: ma davvero avevo studiato tutte queste cose? Molti dei testi che citavo allora, molte delle fonti e delle informazioni, oggi non li ricordo più. Scegliere situazioni complesse mi costringe a studiare, e lo faccio molto volentieri, ma questo non significa che il bagaglio che ci si porta dietro diventi nel tempo così pesante da non poter essere trasportato. L’Avventura, poi, è un genere particolare. È un viaggio attraverso delle realtà che non si conoscono e che bisogna imparare a conoscere. Se uno non ha questa disposizione esplorativa, è meglio che non ci provi neanche a scrivere storie d’Avventura.

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Come altre serie Bonelli recenti quali «Orfani» e «Lukas», anche «Adam Wild» è organizzato in stagioni. Quali sono le differenze rispetto alle classiche serie regolari Bonelli?

La differenza è nella programmazione del lavoro. Io però non ho concepito Adam Wild stagione per stagione. L’ho concepito come una serie potenzialmente senza conclusione, nemmeno per cicli. Quindi se a un certo punto si interromperà, si interromperà e basta. In questo somiglia molto alle serie bonelliane classiche. Serie che un tempo mi intimidivano. Quando firmai il contratto per Magico Vento, restai atterrito dalla clausola che mi richiedeva un impegno minimo decennale. L’idea mi dava sgomento… Anche perché io mi impegnavo, ma la casa editrice si riservava la facoltà di interrompere la serie prima. Però questa cosa, e questo rischio, mi hanno aiutato a crescere.

Rispetto alla caratterizzazione volutamente ambigua di alcuni recenti personaggi Bonelliani, mi pare che Adam sia un personaggio piuttosto «old school»: un avventuriero membro della prestigiosa Royal Geographic Society, nientemeno…

Io da questo punto di vista sono molto Old School. Ritengo che nella letteratura popolare e nel fumetto, il quid, l’elemento essenziale, risieda nella creazione del personaggio. Stan Lee è un grande narratore, ma l’elemento in più, davvero imponderabile, sta nella sua capacità di creare personaggi. Ci sono personaggi che restano indimenticabili e altri no. Come mai? Non si sa. Salgari ha scritto più di cento romanzi. Era sempre lui a scriverli. Però se guardiamo ai personaggi, ci vengono in mente Sandokan e il Corsaro Nero. Conan Doyle era un grande scrittore che ha percorso ogni genere, però lo ricordiamo come il padre di Sherlock Holmes. Il personaggio nella letteratura seriale (e non solo, in verità) conta molto di più dello scrittore. E’ sul personaggio che bisogna concentrarsi. E che un personaggio entri a far parte dell’immaginario collettivo oppure no, non dipende solo dallo scrittore, dipende soprattutto dai lettori.


Il personaggio ha una caratterizzazione grafica molto distinta, volutamente slegata da tormentoni lessicali o modelli fisici precostituiti e con una gabbia grafica piuttosto flessibile. Una strizzata d’occhio a un mercato tradizionalmente difficile come quello estero?

Strizzate d’occhio no, perché se ci si fa troppo l’abitudine diventano dei tic. L’estero però va preso molto sul serio, anche perché non è più estero. Il mercato , oggi, è mondiale. «Nostra patria è il mondo intero», a dirla in positivo, con le parole dell’anarchico Pietro Gori. Quelli che davvero stanno all’estero, oggi, sono quelli che si rinchiudono nei piccoli confini nazionali o regionali. In Adam Wild ci sono parecchi disegnatori serbi. Oggi stanno facendo scuola nel mondo. I fumetti americani sono strapieni di talenti che provengono dall’est Europa. Non sono emersi mica per caso. Non hanno avuto un mainstream nazionale cui ispirarsi come modello e dunque sono espressivamente molto vari, duttili, e insieme originali. La cosa più sbagliata da fare, con loro, sarebbe quella di costringerli ad adeguarsi a un modello unico.

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Anche qui, come in «Shanghai Devil», il ruolo di spalla principale tocca a un italiano, il conte Narciso Molfetta. Solo la soluzione più comoda per rappresentare il punto di vista del lettore, o una simpatia nei confronti degli arcitaliani?

Narciso è un personaggio davvero strano. Non so come mi sia venuto, cioè sì: ho visto un quadro di Boldini (il ritratto del conte di Montesquiou, 1897) e d’istinto ho pensato: come se la caverebbe uno così in un contesto abissalmente diverso, come l’Africa Nera? Il contrasto mi appassionava. Poi, approfondendo il personaggio, mi è venuto in mente di legarlo, per origine e formazione, al Vaticano. Non avevo mai raccontato prima un personaggio del genere. È come se si fosse presentato lui a me. Di sicuro non è un italiano tipo. Anche se di italiani così ce ne sono stati parecchi in età coloniale, e ce ne sono ancora: italiani «dislocati» che per gli Italiani in patria risultano spesso più stranieri degli stranieri.
Nel primo numero, in quanto a villain, hai scelto un grande classico: trafficanti di schiavi e avorio...

Quello dello schiavismo è un leit-motiv della serie. Oggi parliamo tutti del ritorno del razzismo, ma ci dimentichiamo che il razzismo storicamente nasce dallo schiavismo. Se nel mondo contemporaneo si è riaffacciato il razzismo è perché sono tornate forme di economia schiavistica. Adam, nel suo piccolo, ci dice che per combattere lo schiavismo non si deve combattere contro gli schiavi, bisogna invece liberarli. I nemici sono gli schiavisti, non gli schiavi. Se uno pensa che sono schiavi perché «inferiori», costui è un filo-schiavista.