Obliterata dalle carte geografiche alla fine del Settecento a seguito della totale spartizione del suo territorio tra gli imperi di Austria, Russia e Prussia, la Polonia fino alla ritrovata indipendenza nel 1918 è esistita esclusivamente nello spazio della memoria, nei vagheggiamenti nostalgici degli esuli o nei disegni politici spesso fallimentari di chi ha lottato per ricostituirla in quanto stato nazionale.

Le possibili implicazioni surreali di un simile statuto ontologico non passarono inosservate a Alfred Jarry che, presentando il suo Ubu re al pubblico parigino il 10 dicembre 1896, ne situò per l’appunto l’azione «in Polonia, ovvero da Nessuna Parte». Toponimo paradossale che indicava un punto assente dalle mappe, la Polonia di Ubu incarnava emblematicamente la natura convenzionale, fragile e transeunte degli spazi su cui proiettiamo le nostre esistenze. Territori così incerti da far esclamare a un conterraneo di Jarry, Georges Perec: «Vorrei che esistessero luoghi stabili, immobili, intangibili, mai toccati e quasi intoccabili, immutabili, radicati; luoghi che fossero punti di riferimento e di partenza (…) Tali luoghi non esistono ed è per questo che lo spazio diventa problematico, cessa di essere evidenza…».

Ambientato in Lituania

Non è un caso, dunque, che l’opera innalzata da generazioni di critici e lettori al rango di epos nazionale polacco ruoti intorno al motivo del ritorno impossibile a una patria che, ormai, non sussiste da nessuna parte se non nell’immaginazione poetica. Composto tra il 1832 e il 1834, in Svizzera e a Parigi, quando per l’appunto la Polonia era un fantasma geopolitico da quasi un quarantennio, il Pan Tadeusz o Signor Taddeo di Adam Mickiewicz era noto finora al lettore italiano tutt’al più per sentito dire, malgrado la sua centralità di «classico» lo avesse ovviamente reso un punto di riferimento essenziale per autori come Czesław Miłosz o Witold Gombrowicz.

Tradotto per la prima volta in italiano nel 1871 (dal francese e, pare, da Arrigo Boito, anche se la paternità non è certa) e ripubblicato nella versione in prosa di Clotilde Garosci nel 1924, questo poema epico, «idillico» o «campestre» (così lo definì l’autore) era introvabile dal 1975. Tanto più sorprendente è ritrovarlo ora con il titolo lievemente arcaizzante di Messer Taddeo nella nuova traduzione in versi di Silvano De Fanti (Marsilio, pp. 482, euro 28,00). Una resa che, da una parte, mira a restituire il fluire disteso del metro polacco (il tridecasillabo tipico delle forme epiche e descrittive, qui trasposto in coppie di settenari con cesura interna); dall’altra, giocando abilmente nel lessico con una pluralità di registri, riflette le molteplici fonti di ispirazione che si contendevano l’inventiva del poeta al momento della stesura – dall’epica di Omero, Tasso e Virgilio al romanzo alla Walter Scott, dall’Hermann und Dorothee di Goethe al folklore locale.

Solenne e, al tempo stesso struggente, è il celebre (almeno in Polonia) incipit: «Lituania, patria mia! Sei come la salute: / vi può apprezzare solo chi un giorno vi ha perdute». Sembra quantomeno bizzarro che il poema romantico polacco per eccellenza si apra con un’invocazione alla nazione baltica sua attuale vicina; in realtà, la Lituania cui si riferiva Mickiewicz era l’entità territoriale gravitante fin dal 1385 nella sfera di influenza polacca grazie a una unione dinastica accompagnata dalla alleanza militare conclusa dai due paesi contro il nemico comune: i cavalieri dell’Ordine Teutonico.

Più tardi, quando nel 1569 nacque la Confederazione polacco-lituana o Repubblica delle Due Nazioni, il granducato di Lituania comprendeva anche vasti territori a est, inclusa quella parte dell’odierna Bielorussia dove nel 1798 nacque lo stesso Mickiewicz.
Ambientando le vicende di Messer Taddeo nel 1812, in una località immaginaria della Lituania inglobata dall’impero zarista, l’autore riandava dunque alla patria perduta della sua infanzia, eternandola in una fase cruciale di passaggio, quando la società feudale cominciava a mutare sotto l’effetto degli echi lontani della Rivoluzione Francese e delle imprese napoleoniche. Ed è proprio in Bonaparte che i patrioti ritratti da Mickiewicz ripongono le loro speranze affinché la Polonia venga riscattata dall’inesistenza, mentre nel frattempo le nuove generazioni rimpiazzano il kontusz (l’antico costume maschile indossato dai nobili) con il più moderno frac e ai banchetti le ecatombi di selvaggina o le elaboratissime ricette d’epoca barocca (memorabile il pesce intero con «la testa fritta, il corpo arrostito» e la coda in umido) cominciano a cedere il passo a pietanze meno impegnative.

Affresco incantevole per grazia e ironia di quel continente sommerso che per più di un secolo fu la Polonia, Messer Taddeo esibisce anzitutto la sua dimensione corale: inutile cercarvi gli assoli disperati, cinici o malinconici di tanti eroi di poemi romantici, da Werther a Evgenij Onegin, passando per Jacopo Ortis e Childe Harold. Il protagonista Taddeo è personalità quantomai insulsa e anodina; se da Vilnius (dove ha stancamente concluso gli studi) fa ritorno alla tenuta campestre dello zio è solo per rimanere impigliato malgré soi in una fitta trama intessuta da una miriade di figure incomparabilmente superiori alla sua: l’affascinante zia Telimena che tenta di sedurlo, il misterioso fra Verme che svelerà soltanto alla fine la sua vera identità, nonché i partiti avversi delle famiglie nobiliari rivali dei Soplica e degli Horeszko che, in una scena da poema eroicomico, ingaggeranno tra loro una virulenta tenzone a colpi di clava, mazza, sciabola e spada per strapparsi un castello in rovina.

Un gusto per il fantastico

na tonalità sottilmente satirica riemerge ciclicamente in tutto il poema, come notarono già all’epoca i lettori più accorti, tra tutti il poeta Cyprian Norwid. La «traboccante ridicolizzazione» di cui parlava un altro illustre collega di Mickiewicz, Zygmund Krasinski, si sposa a un gusto per il fantastico non meno irrefrenabile, evidente soprattutto nelle descrizioni della natura lituana, dominata da alberi secolari di spropositate dimensioni, boschi impenetrabili dove abbondano gli orsi, e giardini in cui ortaggi pressoché umanizzati e dotati di una fisicità sensuale assistono alle apparizioni di diafane sagome femminili.

Non a caso, Czesław Miłosz, altro poeta polacco nato nelle terre lituane, rileveva la dimensione «metafisica» di Messer Taddeo (o «surreale», forse avrebbe detto Jarry), nonché il carattere fiabesco della patria che Mickiewicz ricostruì tra le sue pagine. Quasi una implicita conferma a Perec, quando scriveva che ogni luogo, presente o meno sulle carte geografiche, resta comunque un’astrazione: «Lo spazio è un dubbio, non è mai mio. Devo conquistarlo».