L’ondata di elogi agiografici suscitata dalla morte di George Bush senior, ha posto in modo lampante il problema della decodificazione dei processi storici in un epoca di mistificazione assurta a paradigma politico. Adam McKay è un regista che ha usato il suo cinema per decostruire dinamiche politiche sempre più impenetrabili nella forsennata rappresentazione contemporanea.
Due anni fa, in The Big Short, McKay aveva puntato la cinepresa sulla grande truffa subprime decostruendola nelle sue componenti di avidità e sovversione politica. Ora dedica con grande tempismo il suo nuovo film ad un personaggio emblematico della parabola politica che porta all’attuale neo totalitarismo. In Vice il regista traccia un ritratto del politico più misterioso e mefistofelico della deriva reazionaria americana: Dick Cheney. Interpretato da un camaleontico Christian Bale, il vice di Bush inizia la carriera come funzionario minore (e delfino di Donald Rumsfeld) nelle amministrazioni Nixon e Ford. Diventa parlamentare del Wyoming ed infine vicepresidente «con portafoglio» di George Bush Jr. cui l’11 settembre offre il pretesto per le guerre che ancora oggi stravolgono il medio oriente.
I necrologi del primo Bush sono stati soffusi di nostalgia per un presunto «decoro» andato estinto nella politica attuale. Eppure il «contegno» di era pre populista, celava la stessa collusione fra potere e gli interessi del capitale finanziario che avrebbero di li a non molto portato il mondo sull’orlo della rovina. Trump oggi dichiara apertamente che «essere amici dei Sauditi ci conviene perché gli abbiamo venduto 700 miliardi di dolari di armamenti per la guerra in Yemen» ma il terreno per quel cinismo stato preparato da politici come Dick Cheney, architetto della Guerra irachena come colossale affare per la Halliburton l’azienda che aveva diretto fino alla nomina.
Nella storia di Cheney, nominale vicepresidente ma vero pilota delle politiche neocon del regime Bush, McKay produce una retro storia del nuovo egemonismo e del neo autoritarismo americano, l’assalto extra legale alla democrazia che introdusse gli enemy combatants, le extraoridanry rendition, le prigioni segrete e la tortura nel lessico quotidiano. Il degrado etico cioè che fu progenitore necessario del trumpismo.
Come è nato il progetto?
L’ispirazione è stata una conversazione fatta con un amico qualche anno fa. Si parlava che in fondo bisognerebbe riuscire a provare compassione per tutti. E io ho detto ‘per Cheney proprio non ci riesco’, e lui: ‘dovresti fare un film su di lui’. E l’idea mi si è ficcata in testa. Ma all’atto pratico, con gli attori non abbiamo mai parlato di ideologia, volevo che il film nascesse come studio di carattere, dei personaggi, e In fondo, si, anche della loro umanità. Volevo che la questione centrale rimanesse: come si arriva a tanto? Come fanno le cose a diventare così paradossali che i governanti abbandonano ogni concezione di bene comune e si imbarcano in una traiettoria di potere assoluto? Abbiamo cercato di esaminare più delle politiche specifiche e di guardare alla personalità di quest’uomo che era un personaggio mediocre in uno stato remoto come il Wyoming, che ha incontrato una donna brillante e ambiziosa con cui ha finito per cambiare il corso della storia
Non deve essere stato facile scavare nella vita di un politico per definizione riservato.
È ciò che mi ha affascinato. L’intera vita di Dick Cheney era volta a non lasciare tracce, eliminare ogni indizio. Le sue biografie si direbbero deposizioni in tribunale tanto sono attentamente formulate – non solo sulla Guerra in Iraq. Al punto che ricercare il film è stato un po’ come la radiotelescopia, la disciplina scientifica in cui, non potendo osservare corpi celesti direttamente se ne deduce l’esistenza dal comportamento di pianeti vicini. Alla fine nel cercare di ricostruire gli eventi, la fonte più utile si è rivelata essere proprio Lynne Cheney. La moglie di Cheney aveva velleità letterarie ed ha scritto una biografia in cui ha rivelato diverse cose. Si è trattato poi di verificare molti dettagli con altri libri sulle amministrazioni di Ford e Bush. È stato un po’ lavorare da detective per ricostruire l’essenza di un uomo che aveva fatto di tutto perché non si potesse conoscere.
Una moderna tragicommedia?
Ad un cero punto la domanda centrale è diventata «come fa una persone a diventare Dick Cheney? Come si crea una persona così?» Soprattutto alla luce di ciò che è venuto dopo.
Quello che hanno provato i prigionieri sottoposti a torture, i torturati innocenti, le persone rinchiuse a Guantanamo, le centinaia di migliaia di civili iracheni uccisi…..E credo che la domanda sia più che attuale che mai visto ciò che stiamo vedendo oggi. Abbiamo ucciso 600 mila persone in Iraq, allo stesso tempo la gestione di quella Guerra somigliò ad una assurda commedia degli errori con George Bush e gli specialisti di marketing che organizzavano «focus group» alla casa Bianca per ottimizzare la messaggistica …è una storia agghiacciante e ridicola allo stesso tempo.
È una cronistoria del neoconservatorismo?
La storia ovviamente ha anche a che vedere con l’ascesa dei neocon e quella concezione di egemonismo, ma personalmente dopo aver letto tutti quei trattati e quei saggi, credo che il neoconservatorismo fosse in fondo solo una copertura per la solita sete di potere, solo forse con meno scrupoli. Mi sembra difficile prendere sul serio le razionalizzazioni filosofiche dietro l’invasione dell’Iraq e l’istaurazione di un regime filo americano. Mi sembra davvero impossibile potervi addurre le benché minime giustificazioni «umanitarie». Molti di noi assistemmo a quella decisione con rabbia impotente, alcuni di noi scrissero editoriali o sfilammo per protesta nelle strade, eppure rimane un fondo di dubbio sulla complicità collettiva.
Ha mai pensato di parlare con Cheney, chiedere al sua versione?
Ho parlato con molti giornalisti ed ho cercato di leggere ogni cosa pubblicata sul suo conto, ma l’idea di tentare di avere il suo contributo non mi è mai passata per la testa. È noto che si tratta di gente che non ha molti scrupoli e metterlo al corrente avrebbe immediatamente reso vulnerabile il film. C’è già chi lo ha fatto: RJ Cutler ha girato un film intitolato Cheney in parole sue in cui Cheney riesce a schivare ogni domanda. Erroll Morris ha provato a fare lo stesso con Rumsfeld, (con Known Unknown, ndr) con lo stesso sterile risultato. A questa gente non interessa disquisire, sanno qual è la posta in gioco.
Che effetto spera possano avere i suoi film?
Prego solo che la gente veda queste ingiustizie e questi crimini e che veda Big Short e Cheney e magari si domandi: ‘e io che facevo all’epoca?’ Come mai non ho prestato più attenzione? Credo che in America sia davvero nato un macchinario di media e di intrattenimento (per la gestione del consenso) senza pari. Una grande ispirazione per me sono i film del documentarista inglese Adam Curtis (Century of Self, Hypernormalisation, ndr.)