Curiosamente, nelle programmazioni estive dei festival, risuonano spesso grandi proclami di affermazione di ancor più grandi principi e intenti, o di rivendicazioni di diritti sacrosanti. Peccato che frugando meglio, si riconosce facilmente in quei programmi la solita pigrizia, la ripetitività fastidiosa di affermazioni di puro buon senso, che prendono corpo sulla scena nel teatro di sempre, quello che macina e annoia nelle normali stagioni teatrali. Perfino un’operazione che voleva essere meritoria (oltre che assai necessaria) da parte del ministero italiano della cultura, un cospicuo bando dal trasparente nome di Migrarti, permette a infinite piccole realtà di dichiararsi «vincitori del bando pubblico», in una ipotetica gerarchia che affianca e livella decine e decine di progetti, per lo più simili tra loro, altro che «competizione».

Questa premessa per spiegare la sorpresa e l’interesse che è stato possibile rilevare invece in un «piccolo» festival di un paese economicamente agli ultimi posti della Ue, dalle parti dove annaspano la Grecia e anche l’Italia. Il Festival di Almada è in realtà la manifestazione più importante dell’estate culturale portoghese, senza nascondersi dietro facili alibi e «difese». Per essere un festival nazionale non ha le pretese «nazionaliste» di Avignone o di Edimburgo, votati alla difesa di una identità primaziale a tutti i costi (anche quelli economici, ça va sans dire). Eppure nell’articolarsi di serate e spettacoli in questa moderna città proprio di fronte alla meravigliosa Lisbona in riva al Tago, si rintraccia un filo sostanzioso di cose e problemi che ci riguardano tutti assai da vicino, espressi con le più svariate forme artistiche, dal teatro di figura allo pseudomusical, dal racconto di parola al teatro d’ambiente molto latinoamericano e argentino in particolare. Con la presenza di star internazionali di eccellenza come Christof Marthaler che porta qui il suo Labiche strutturalista, l’irresistibile e devastante Ile flottante, o il duro confronto materno approntato con Möder da Gabriela Carrizo già Peeping Tom. E naturalmente il nostro Pippo Delbono col suo Vangelo, e l’Hedda Gabler norvegese tornata dall’anno scorso per acclamazione del pubblico.

Con grande impatto si apre Mozambique, lussureggiane di colori e di vedute da quell’Africa lontana che del Portogallo fu colonia. Ma Jorge Andrade, autore e protagonista tra bellissime emule di Josephine Baker, scopre presto, dopo pochi passi di danza, il suo percorso di verità. Da quando fu richiesto in adozione alla madre da una zia cui erano stati uccisi in sequenza due figli, e lui cominciò a rendersi conto della complessità dei rapporti umani. Che in scala più grande ritrovò poi tra i diritti dei mozambicani e le pretese armate dei portoghesi salazariani. Un racconto sereno e problematico, non enfatico ma proprio per questo più efficace e coinvolgente per lo spettatore.

Assai più contenuto e dimesso, all’apparenza, Svaboda, scritto e messo in scena da Bernardo Cappa, un nuovo nome importante della esplosiva nuova onda teatrale di Buenos Aires. Nuovo per noi che ne abbiamo conosciuto diversi altri in Europa, ma deciso e sicuro nel raccontarci la storia di tre personaggi spersi nella pampa argentina. I due sono una coppia smunta e abbastanza triste di immigrati, ma dalla Russia. E subito scatta il riferimento al significato di svoboda nelle lingue slave: libertà. Il terzo e un giovanotto azzimato catapultato in quel paesaggio da una società di assicurazioni per regolare l’incidente accaduto qualche giorno prima: una vacca fuggita dalla povera fattoria è rimasta uccisa in un frontale con un camioncino. Quell’arrivo però costituisce anche il big bang di una situazione calcificata, per la coppia, ma anche per lo stesso legale arrivato da fuori. Non è solo violenza quella che scoppia, ma qualcosa capace di accendere luce insperata nel finale di assoluta sorpresa, dopo che ognuno dei personaggi avrà avuto modo di prendere almeno un barlume di coscienza di sé.

Ancora più esplicito, fin dal titolo, il riferimento di un altro spettacolo, Operarios. Due attori, una compagnia dal nome curioso (Utero), grande lavoro sul corpo e su tutta la formazione dell’attore, per trovare un elemento comune tra il proprio impegno e gli esponenti di una attività sempre più in via d’estinzione, gli operai appunto. Perché gli uni e gli altri, operai e artisti, «guardano al mondo dalla loro immensa fragilità e dalla forza di trasformarlo», sorta di dedica affettuosa ad Almada, che con la chiusura dei Cantieri navali ha visto scomparire la propria grande forza operaia.

Non si creda che questa scelta di inusuale adesione alla politica sia limitata al panorama portoghese, forte dell’essere l’unico paese europeo governato dalla sinistra. Dal Belgio è arrivato il Collectif Raoul, cinque giovanissimi neodiplomati al Conservatoire di Bruxelles. E mandano in scena con Rumori e albe l’ultima trasmissione di un collettivo che attraverso la radio ha conquistato un grande seguito di pubblico. Scatenati e irresistibili, delusi e commoventi, ci portano echi di casa nostra. La vitalità non scioglie l’amarezza, unica nota positiva la consapevolezza che il teatro può raccontare anche storie come queste. E il festival di Almada, con la direzione di Rodrigo Francisco, può tenere acceso, oltre il sipario, un barlume di speranza.