Chissà come si sono eccitati in redazione quando sono riusciti a trovare il titolo che cercavano: doveva essere ovviamente razzista, ma alleggerito con un po’ di sarcasmo. «Marino sindaco di Rom», recitava ieri Il Tempo in prima pagina; il riferimento era alla sistemazione di alcuni alluvionati in un edificio in cui sono già ospitate famiglie di «zingari». Non solo, dunque, il sindaco aveva ridotto Roma a una gigantesca pozzanghera, da Prima Porta a Via del Corso, dalla Boccea all’Infernetto.

Ma non contento si permetteva inoltre di trattare i romani come profughi in casa propria.

Ora, al di là della perfidia sgraziata della stampa palazzinara, c’è da registrare che la città ha di nuovo segnalato tutta la sua fragilità. Non è la prima volta che Roma viene travolta dalle acque: dalle antiche cronache repubblicane ai romanzi di Pasolini, di millennio in millennio, ricorrono alluvioni e inondazioni, allagamenti e straripamenti. Ma la loro frequenza si è pericolosamente accorciata, e più intensi appaiono i fenomeni. Bisognerebbe prenderne coscienza e, soprattutto, difendersi meglio, attrezzarsi con più efficacia. Ma non avviene mai. Si dichiara lo stato d’emergenza per qualche tempo e poi null’altro.

Non si tratta di attribuire a Ignazio Marino la responsabilità delle voragini, delle frane, dei disservizi, ecc. Né di addebitargli le alterazioni climatiche che generano quelle impetuose bombe d’acqua che ormai ciclicamente strapazzano Roma. Essendo il sindaco, ne risponde politicamente, anche se è appena arrivato. E in quanto sindaco, ormai più che bagnato, a questo punto non può più sfuggire all’obbligo di fare qualcosa al riguardo. E di cose da fare ce ne sarebbero, e neanche tanto difficili.

Prima di tutto, il blocco delle concessioni edilizie. Quelle già rilasciate e non ancora realizzate e, a maggior ragione, quelle in lista d’attesa. A Roma non si può più urbanizzare. Quel che resta del piano di campagna deve diventare intoccabile: «Fate respirare la terra», come dice l’abate Franzoni.

È indubitabile che una delle maggiori cause dell’allagamento di molte zone di periferia dipenda dalla scriteriata edificazione di quartieri e quartierini, spesso mal realizzati e perfino abusivi; e non raramente tali insediamenti comportano la deviazione o l’interramento di torrenti e fiumiciattoli, preziosissimi alvei di raccolta e dispersione. Ed è così che si finisce per impedire sia l’assorbimento sia lo scolo dell’acqua piovana.

C’è poi da avviare una generalizzata manutenzione della città, la città di sopra e quella di sotto. Strade, piazze, edifici, parchi, giardini; e poi l’intero sistema fognario che accoglie e redistribuisce i flussi dell’acqua piovana, dai tombini in superficie ai canali di scorrimento. Una grande campagna di rigenerazione, che ristrutturi e restauri secoli e secoli di morfologia urbana, quel complesso pietrificato che sta diventando sempre più labile e precario. Roma è una delle città più belle al mondo, ma rischia di sfarinarsi se non s’interviene con rapidità ed energia.

Al sindaco Marino non si chiede di tappare le buche (così come al sindaco Alemanno nessuno aveva chiesto di spalare la neve). Si chiede invece di fare quel ch’è necessario. Se la sente di dichiarare conclusa la stagione edificatoria e di mettersi contro il più potente dei poteri romani, quello immobiliare?

Se la sente di investire sulla manutenzione urbana, sbloccando le risorse necessarie dai vincoli del patto di stabilità? Se la sente insomma di condurre una battaglia che contrasti la mercificazione della città e disobbedisca all’oppressione delle larghe intese?