Un mese dopo l’inizio del cessate il fuoco tra Israele e Hamas, una persona su cinque nella Striscia di Gaza non ha accesso all’acqua corrente. I bombardamenti aerei israeliani tra il 10 e il 21 maggio hanno danneggiato anche le infrastrutture idriche: pozzi, stazioni di pompaggio e trattamento delle acque reflue, impianti di desalinizzazione. Manca inoltre l’elettricità pubblica per gran parte del giorno e per questo liquami non trattati si riversano in mare. I bambini fanno ugualmente bagni e tuffi perché quella è l’unica vacanza che possono permettersi a Gaza sotto blocco israeliano da 14 anni. Gli ingegneri della Water and Coastal Towns Authority hanno bisogno di chilometri di tubi di metallo e migliaia di pezzi di ricambio per riparare reti e sistemi idrici ai quali però Israele, in gran parte dei casi, non consente di entrare nella Striscia perché, sostiene, potrebbero essere usati da Hamas per costruire razzi. Ma è solo uno dei problemi che Gaza affronta in questi giorni. L’elenco è lungo, dall’economia ferma alla disoccupazione. L’ultima escalation militare ha aggravato le condizioni di vita già insostenibili per gli oltre due milioni di palestinesi nella Striscia. E decine di famiglie piangono ancora i quasi 260 morti causati dagli attacchi aerei.

La leadership di Hamas che un mese fa credeva di essere uscita vittoriosa dal confronto militare con Israele e che ergendosi a protettrice di Gerusalemme pensava di aver ottenuto un ruolo da protagonista nel sistema di alleanze regionali, ora scopre di essere sempre confinata a Gaza, stretta tra le pressioni dei suoi sponsor arabi e incapace di sottrarsi alle imposizioni di Israele e dei «nuovi amici» egiziani. «Israele continua le sue politiche, non c’è alcun segnale di risoluzione della crisi umanitaria. Israele ci ricatta per allentare il blocco», protestava due giorni fa il leader di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar dopo il colloquio avuto con l’inviato delle Nazioni Unite per il Medio Oriente, Tor Wennesland. «È stato un pessimo incontro, per niente positivo», ha aggiunto Sinwar apparso meno baldanzoso rispetto a un mese fa, «la delegazione dell’Onu ci ha ascoltato ma purtroppo non c’è alcuna indicazione su come possa essere risolta la crisi umanitaria di Gaza».

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Israele non ha accettato neanche una delle richieste di Hamas durante i negoziati indiretti mediati dall’Egitto e, fatta eccezione per l’autorizzazione alla ripresa parziale delle esportazioni da Gaza, non pare avere alcuna intenzione di allentare il blocco. Ha bloccato anche i 30 milioni di dollari che il Qatar dona mensilmente alla popolazione della Striscia. Prima di qualsiasi concessione Israele vuole la restituzione dei corpi di due soldati caduti in combattimento nel 2014 e la liberazione di due suoi cittadini – un etiope e un arabo – detenuti a Gaza. I toni del premier Nafatli Bennett non lasciano spazio alle interpretazioni. «I nostri nemici conosceranno le regole: non subiremo violenze e un lento stillicidio (di razzi, ndr). La nostra pazienza è finita», ha proclamato nei giorni scorsi. E si alza anche la voce di chi invoca un’invasione per «rimuovere Hamas dal potere e restituire Gaza all’Autorità nazionale palestinese (Anp)».

A gettare sale sulle ferite è anche la spaccatura, di fatto insanabile, tra Hamas e Abu Mazen. Se da un lato il presidente dell’Anp, ha ormai perduto, lo dicono i sondaggi, il consenso della sua gente, a causa la sua linea di «basso profilo» nei confronti delle temute espulsioni di famiglie palestinesi da due quartieri di Gerusalemme Est e delle conseguenze dei raid israeliani su Gaza, dall’altro Ue e Usa continuano a considerarlo l’unico interlocutore per i progetti di ricostruzione della Striscia. Per questo ha formato una commissione ad hoc senza rappresentanti di Hamas e la mossa ha fatto infuriare il movimento islamista. All’orizzonte già si scorge una nuova guerra.