Vedi mai che Paola Taverna avesse ragione e il partito di Renzi cospirasse davvero per costringere i pentastellati a governare Roma? Il dubbio sorge a fronte di un autogol tanto clamoroso quanto quello che il partitone si è inflitto bersagliando Virginia Raggi per le sue dichiarazioni sul futuro di Acea, in una eventuale Capitale a 5 stelle. Che il Messaggero mitragliasse era nell’ordine delle cose: a Roma quella è la voce del padrone, il quale per pura coincidenza è anche azionista numero uno, tra quelli privati, della succitata Acea. Anche le sberle del Sole 24 Ore erano inevitabili: non è che da quelle parti gli interessi, anche solo di categoria, scarseggino. Ma al Pd come sarà venuto in mente di schierarsi in piena campagna elettorale a difesa strenua dei più sfacciati interessi privati che la città distrutta possa lamentare? Ieri è arrivata l’interrogazione che era stata annunciata da Raffaele Ranucci: insieme ad altri senatori dem (Astorre, Cirinnà, Lucherini, Maturani, Parente, Scalia, Spilabotte, Sposetti e Valentini) chiede al ministro dell’Economia Padoan e a quella dello Sviluppo Guidi, «quali siano le valutazioni del governo sulla vicenda Raggi-Acea, quali iniziative intenda l’Esecutivo adottare per tutelare gli azionisti di una delle principali multitutility italiane quotate in Borsa e se non ritenga opportuno un intervento di Consob e dell’Autorithy per la concorrenza per valutare i danni causati dalla candidata del Movimento 5 stelle all’Acea, ai cittadini romani e al tessuto produttivo della Capitale».

La vicenda è nota. Raggi, in diretta tv, ha fatto sapere che, ove si ritrovasse prima cittadina, stravolgerebbe il management dell’azienda. Sostiene, la candidata 5 Stelle, che l’acqua è un bene comune dal quale non è giusto che i soliti noti traggano profitti. Si è appigliata addirittura a un referendum popolare che avrebbe confermato e sancito il principio, come se i referendum contassero davvero qualcosa e non fossero materia molle che un governante con gli attributi può poi plasmare a proprio gusto. La candidata ha inanellato qualche strafalcione. Ha confuso gli utili pari a 175 milioni con i dividendi, quantificati in una cinquantina. Ha fatto finta, o forse si illude davvero, che rovesciare Acea come un calzino sia un gioco da ragazzi. E’ capitato che i commentatori, usi a sorvolare su topiche del genere quando le spara a raffica il potente fiorentino, proprio come faceva quello lombardo di ieri, si siano scoperti in questo caso occhiuti e severi. In realtà gli anatemi peccavano della medesima superficialità, o peggio, avendo accollato all’incauta la responsabilità di immensi, ma in realtà inesistenti, danni economici “in capo” a ogni cittadino. Ma questo, da una parte come dall’altra, resta il meno. Sul piano della politica, il fronteggiamento è chiaro. Virginia Raggi ha lanciato un segnale preciso: sia pur confondendo utili e dividendi, ha detto di voler rispettare l’esito di un referendum del quale il governo si avvia invece a fare carta straccia e di non mettere al primo posto nelle sue preoccupazioni gli interessi di Caltagirone e di tutti i palazzinari-rentiers che rappresentano a Roma un potere assoluto.

I padri del geniale Piano regolatore che nel 2008 regalò milioni di cubature di cemento ai palazzinari, naturalmente su terreni di proprietà dei medesimi, dovrebbero riflettere prima di accusare chicchessia di rappresentare una minaccia per Roma. I partiti che hanno consentito ai medesimi gran signori di trasformare l’emergenza abitativa in un affare o che possono vantare lo scempio della Metro C (nella quale guarda caso c’azzeccano i soliti, Caltagirone in testa), dovrebbero esitare prima di puntare il dito.

Che si concedano il lusso di pontificare può significare due sole cose: o sono convinti di avere di fronte una plebe pronta a ingoiare tutto, oppure mirano a perdere le elezioni.