Era già buio martedi quando, al largo della provincia di Aceh a Sumatra, i pescatori hanno iniziato ad attrezzarsi per salvare i migranti. Quattrocento di loro sono stati tratti in salvo mercoledi mattina e si vanno ad aggiungere ad almeno alti 1400 già sbarcati sulle coste indonesiane. La stampa locale riferisce di una diffusa solidarietà ai Rohingya, la maggior parte dei migranti, sia perché sono musulmani perseguitati, sia perché gli accinesi sanno cosa vuol dire «solidarietà» dopo decenni di guerra civile e la memoria dello tsunami che nel 2004 uccise qui 170mila persone. Ma se la notizia del salvataggio rischiava sino a ieri di essere solo un episodio di buon cuore, che spesso aleggia più nell’animo di pescatori e contadini poveri che nei palazzi del potere, un accordo tra Jakarta, Kuala Lumpur e Bangkok è arrivato a definire un piano di accoglienza che, almeno per il momento, chiude un capitolo fatto di respingimenti più o meno violenti di barconi non dissimili da quelli che viaggiano verso Lampedusa carichi della stessa disperazione e figli di traffici criminali.

L’accordo tra i tre Paesi verso cui sono diretti i «boat people» per adesso si fa carico dei settemila migranti ancora in mare; settemila o ottomila, come stima l’Oim. Forse di più. Forse solo un’avanguardia. Ma l’accordo è chiaro: soccorso temporaneo per chi è in mare con chiusura rapidissima poi delle frontiere. Come si possa fare una stima esatta e come si possa controllare questo «traffico umano», nessuno è in grado di dirlo. Una pezza che durerà un anno.
I migranti sono essenzialmente cittadini del Bangladesh che cercano fortuna in Paesi più ricchi e Rohingya del Myanmar, Paese dove sono in sostanza degli «invisibili» privi di diritti, status e documenti, da alcuni anni vittime di veri e propri pogrom. Accordarsi col Bangladesh sarà forse possibile ma molto più difficile sarà negoziare coi birmani, in gran maggioranza buddisti ben felici che questi paria prendano il mare. Un bubbone antico scoppiato con un clamore che solo il dramma attuale mette sotto i riflettori e sul quale non mancano critiche ad Aung San Suu Kyi, paladina dei diritti e della democrazia, che sui Rohingya è stata zitta quando non ha sminuito i pogrom in gran parte sostenuti da monaci molto pii quanto violenti.

Malaysiani, indonesiani e tailandesi comunque hanno chiarito che aiuteranno i migranti ma daranno loro asilo temporaneo solo per un anno. E hanno anche fatto appello agli altri Paesi, all’Onu e alla comunità internazionali per non essere lasciati soli. Le Filippine hanno già risposto e anche l’Onu, che si è complimentata per l’accordo, farà la sua parte con le proprie agenzie. Dai birmani una vaga predisposizione all’assistenza umanitaria. Quale? Non è dato saperlo visto che chi chiede rifugio viene da lì. Quanto alla Thailandia, la sua posizione è meno conciliante rispetto a Indonesia e Malaysia (che hanno già accolto 1800 e 1100 migranti rispettivamente): non darà rifugio nemmeno temporaneo ma si è compromessa a non respingere più le carrette del mare che prima scortava verso le acque territoriali dei vicini. Assisterà i casi di emergenza. Non è chiaro cosa farà di chi arriva.