In molti in questi giorni si chiedono perché dentro Yarmouk ci siano ancora 15-16mila residenti, perché non siano scappati tutti (erano 150mila prima dello scoppio della guerra civile siriana) prima dell’assedio cominciato a dicembre del 2012.

Probabilmente soltanto i rifugiati palestinesi, dispersi in tutto il Medio Oriente, sarebbero in grado di spiegarlo: molti non sono fuggiti perché sono stanchi di essere profughi. Profughi della Nakba prima, profughi della guerra civile oggi. Meglio morire nella propria casa che scappare ancora, dicevano a luglio i rifugiati di Gaza mentre piovevano le bombe israeliane.

Yarmouk rappresenta da oltre 60 anni la seconda casa per centinaia di migliaia di profughi palestinesi. A differenza di altri campi, in Libano e Giordania, Yarmouk – che ha accolto l’esodo dei palestinesi che vivevano a nord della Palestina storica, Tiberiade, Safed, Haifa – è stato trasformato in un quartiere di Damasco: i profughi si sono mescolati con i siriani della capitale e hanno creato una comunità radicata. Quei due km quadrati rappresentavano un tentativo di normalità, che il governo della famiglia Assad non ha soffocato, grazie anche agli stretti legami con alcuni gruppi armati palestinesi del campo.

Oggi quella parvenza di normalità è un ricordo lontano: a dettare legge sono stati per tre anni i gruppi di opposizione a Damasco, l’Esercito Libero Siriano prima e al-Nusra poi, accusati dai 18mila profughi rimasti a vivere nel campo di intercettare i pochi aiuti che arrivavano da fuori per poi rivenderli a prezzi quasi inaccessibili. L’Isis – dicono fonti all’interno – sta tentando un’altra via, la stessa strategia usata a Raqqa e Mosul, il bastone e la carota: alle uccisioni e le macabre decapitazioni, i miliziani affiancano la distribuzione di pane per accattivarsi una popolazione affamata.

Impossibile, al contrario, l’ingresso di aiuti umanitari dall’esterno. L’allarme lo lanciano da giorni sia le Nazioni Unite che la Croce Rossa: nessun tipo di operazione umanitaria a Yarmouk è al momento fattibile per l’impossibilità di entrare fisicamente nel campo.

Ieri è arrivata anche la conferma definitiva dell’accordo siglato dal governo di Damasco e i gruppi armati palestinesi operativi all’interno di Yarmouk, accordo volto a controbattere all’avanzata dello Stato Islamico nel campo attraverso operazioni militari congiunte e coordinate: «Ci siamo accordati con il governo siriano sui modi per costringere il gruppo terrorista Is a uscire da Yarmouk – ha detto Ahmad Majdalani, ministro del Lavoro dell’Autorità Nazionale Palestinese, alla testa della delegazione dell’Olp a Damasco – La soluzione militare è sola via per cacciarli fuori».

Sono 14 le fazioni palestinesi che ieri hanno aderito all’accordo che, spiega Majdalani, è volto a individuare «una soluzione alla sicurezza in partnership con lo Stato siriano e che avrà come priorità la salvaguardia dei cittadini». Al meeting nella capitale non ha preso parte il gruppo Aknaf Beit al-Maqdis, legato ad Hamas e dal 2012 impegnato al fianco dei ribelli siriani contro il governo Assad. Dalla fazione islamista non è giunto per ora alcun commento all’accordo. Vero è che da una settimana le diverse fazioni, prima divise dalla guerra civile, ora combattono unite la minaccia islamista.

Tra le rovine rischia di spegnersi anche il pianoforte di Aeham Ahmad. Ieri nei media italiani è girata la sua storia, raccontata da The Electronic Intifada a febbraio 2014: un giovane profugo che nei giorni terribili dell’assedio, lo scorso anno, suonava per i vicoli di Yarmouk per tenere viva la speranza. Succedeva un anno fa, chissà se suona ancora.