Non solo la nomina del premier e quella dei ministri sono, a norma di Costituzione, prerogativa del capo dello Stato. Anche una parola determinante sulle leggi spetta a lui. Per lanciare un quanto mai esplicito monito ai partiti che si apprestano a formare un governo, Sergio Mattarella si affida alle parole e soprattutto all’esempio del padre della patria in persona, Luigi Einaudi, secondo presidente della Repubblica, il primo eletto dal Parlamento. Lo fa da Dogliani, in occasione del settantesimo anniversario dell’insediamento di Einaudi al Quirinale. Ma lo fa con il pensiero rivolto al Pirellone, dove Salvini e Di Maio stanno buttando giù un programma di governo che verrà tuttavia definito «contratto».

 

IL PRESIDENTE, sosteneva Einaudi, «può e deve rimanere dormiente per lunghi decenni», salvo risvegliarsi quando «la voce unanime, anche se tacita, del popolo» gli chiede di intervenire per «risolvere una situazione che gli eletti dal popolo da sé non sono capaci di affrontare o per ristabilire l’osservanza della legge fondamentale». Non è un passaggio scelto da Mattarella a caso.

Significa, in concreto, «uso pieno» delle prerogative del Presidente sulla nomina del premier. Può succedere che decida di non affidare l’incarico secondo l’indicazione dei partiti di maggioranza. A Einaudi capitò, nel 1953, quando scelse di avviare un governo del presidente, guidato dall’economista Giuseppe Pella, contro le indicazione della Dc. Significa intervenire sulla «importantissima» scelta dei ministri e incarnare un «robusto contropotere» rispetto al governo in caso di eventuali abusi. Ma significa anche esercitare il controllo sulle proposte di legge, con il massimo di moral suasion ovviamente, ma se del caso anche rinviando le leggi. Anche questo, ricorda Mattarella, capitò a Einaudi: «Rinviò due leggi approvate dal Parlamento perché comportavano aumenti di spesa senza copertura finanziaria».

Se nascerà, il governo gialloverde sarà dunque seguito, anzi quasi commissariato, dal Colle sin dal primo istante. L’intenzione di Mattarella di incidere a fondo sia sull’indicazione del premier che su quella dei ministri era già nota. Il passaggio ulteriore, quello sulle leggi, è però eloquente arrivando proprio mentre le delegazioni di Lega e M5S, al Pirellone, stanno concordando quelle leggi. Ieri sono arrivati circa a metà dell’opera.

SI RIVEDRANNO OGGI, in tarda mattinata, nello stesso Pirellone e contano di chiudere il «contratto» in giornata, in modo da «poter presentare il programma la settimana prossima», spiega Di Maio. «Partiamo se c’è accordo sull’80% delle cose», duetta Salvini che replica a Mattarella con un sibillino «Einaudi è un grande ma bisogna leggerlo tutto».

ENTRAMBI I LEADER, comunque, sprizzano ottimismo perché, dicono con parole identiche «c’è accordo su molte cose». Non su tutte. Sull’Ilva per esempio, nodo già aggrovigliato che rinvia a una visione complessiva del modello di sviluppo, l’intesa ancora non c’è. E su un particolare come il nome del futuro capo del governo i due contraenti continuano a glissare e rinviare.

MA L’ASPETTO più inquietante riguarda i punti sui quali la convergenza sarebbe invece già accertata: una decina di punti sui 19 iniziali, che lieviteranno probabilmente fino a superare la ventina. Il reddito di cittadinanza, su istanza della Lega che lo voleva a termine, sarebbe ridotto a un sussidio di disoccupazione intorno a 700 euro per due anni, e solo per chi perde il lavoro. La Flat Tax invece sarebbe pienamente attuata, con un’aliquota del 20% sopra gli 80mila euro annui di reddito e una del 15% per chi è sotto quel tetto. Per coprire la spesa, anticipa Siri, l’economista di fiducia di Salvini, si potrebbe ricorrere a una sanatoria che appianerebbe tutti i contenziosi con Equitalia pagando il 25%, il 10% oppure il 6% del dovuto, a seconda delle condizioni economiche.

Sul versante della sicurezza campeggiano «certezza della pena» e costruzione di nuove carceri. Sul fronte dell’immigrazione, cassata l’ipotesi di reintrodurre il reato di clandestinità, restano centrali gli elementi già ampiamente praticati da Minniti: rimpatri e stretta ulteriore sugli sbarchi. Sulla carta, per far contenti gli elettori a cinque stelle, ci sarà il conflitto d’interessi, però «non punitivo o restrittivo mettendo a rischio sviluppo e posti di lavoro». Traduzione: non riguarderà Berlusconi. Sulla Ue aiuta la vaghezza: si cercherà «di rinegoziare i trattati europei».

A quel che sembra di capire, è un programma di destra estrema, dettato dalla Lega molto più che dai 5S. I quali, in cambio di tanta condiscendenza, si preparano a reclamare però il posto più ambito: palazzo Chigi.