«Ripetitiva e disordinata». Così John Bercow – lo speaker (presidente) dei Comuni – ha fiocinato ieri la richiesta di Boris Johnson di rimettere ai voti il suo accordo di uscita dall’Unione europea negoziato in extremis la settimana scorsa. Lo stesso che non era stato votato sabato perché l’aula aveva appena passato l’emendamento Letwin, il cui unico scopo era di rimandarne l’approvazione a dopo che fosse stato convertito in legge, facendo esondare i tempi del limite – fissato alla stessa sera di sabato – necessario per l’approvazione. E facendo così scattare il Benn Act, che obbligava Johnson a spedire la lettera con la richiesta di rinvio a Bruxelles di una proroga di Brexit fino al 31 gennaio 2020 (attualmente l’uscita con o senza accordo è fissata al 31 ottobre).

BERCOW L’HA RESPINTA, questa ri-mozione, ufficiosamente perché è un remainer, ufficialmente perché la prassi parlamentare non prevede che una stessa mozione appena sconfitta possa essere riproposta a distanza di poche ore. Una riproposizione che pecca «nella sostanza e nella circostanza», ha detto lo speaker, in mezzo al ludibrio degli euroscettici. La prassi parlamentare gli riserva questo potere e lui ne ha fatto uso, citando consuetudini datate 1604 e facendo imbestialire il governo e i deputati brexittieri che da tempo ne contestano la parzialità. Palesemente anti-Brexit, con la sua burbera immagine che ormai adorna i comodini dei remainer, Bercow può andarsene in pensione alla fine del mese contento.

Dopo il super fiasco dello scorso Supersaturday (la quinta volta in cui la Camera si riuniva di sabato dal 1939), quando Johnson era entrato con in tasca l’accordo che sperava finalmente di farsi passare dall’aula solo per uscirne qualche ora dopo con un pugno di mosche, l’ennesimo smataflone sulle gote del premier porta la sua firma. Qualora il voto fosse stato autorizzato e lo avesse vinto Johnson avrebbe potuto ignorare la lettera in questione, inviata appena sabato a Bruxelles. “Boris” è ottimista, ci aveva sperato.

Ma per restare all’epistola, che merita ulteriore disamina. Johnson era tenuto a mandarla perché costretto dal Benn Act, votato a settembre dal parlamento. Ma il premier e il mefistofelico Cummings avevano optato per mandarne ben due: una fotocopiata e non firmata (il testo dice «inviare», non «firmare», è stata la sagace giustificazione), tanto per insinuare nel comprendonio continentale quanto fosse contrario a spedirla, e l’altra – firmata eccome! – in cui sconfessava la prima, dicendo di essere contrario alla proroga e obbligato a richiederla dal parlamento. Una filosofia del diritto a metà tra Trump e Paperinik difficilmente commensurata allo stipendio di Cummings.

STA ALL’UE ADESSO vedere se concederla, questa proroga, oppure no. Johnson spera gliela neghino ovviamente, anche se adesso non può più minacciare il no deal: la polvere del suo archibugio è bagnata. La Corte suprema scozzese, presso cui era stata denunciata l’illegalità dell’operazione, ha aggiornato il caso. Resta appeso politicamente alla sua promessa di uscire il 31 ottobre con le bandierine in mano, come da ormai iconici documenti fotografici. Non gli resta che martellare la non del tutto infondata accusa di un Parlamento che ignora la volontà popolare e di tornare all’iter legislativo che l’emendamento Letwin prevedeva: la discussione in aula degli aspetti giuridici dell’accordo di uscita che sarebbe dovuta accadere sabato, che richiederà settimane ma che il governo cercherà di sbrigare questo fine settimana. Mentre, beckettianamente, si aspetta Brexit.