I ministri israeliani Lieberman, Shaked, Bennett proclamano che voteranno contro l’accordo di riconciliazione con la Turchia, formalizzato ieri, che pure assicura indubbi benefici a Israele, strategici ed economici. Il movimento islamico Hamas invece esprime «apprezzamento e di gratitudine» nei confronti di Erdogan nonostante l’intesa fra Israele e Turchia, a parte un po’ di aiuti umanitari, non sia destinata a modificare la condizione di Gaza che è e resterà una prigione a cielo aperto. Nessuna meraviglia. Gli attori protagonisti sul grande palcoscenico mediorientale ci regalano questo e altro. «Il nostro movimento – ha aggiunto Hamas – guarda con fiducia a un ruolo turco che metta fine all’assedio di Gaza e alle incursioni israeliane». La gente di Gaza non ci crede. Sa bene che Ankara, a maggior ragione dopo la pace fatta con Tel Aviv, abbasserà i toni della critica alla politica del governo Netanyahu. Ieri a Gaza era in visita Ban Ki-moon. Il blocco israeliano, ha detto il Segretario generale dell’Onu, è una «punizione collettiva». La situazione, ha aggiunto, «non può continuare: alimenta rabbia e disperazione e accresce il pericolo di un aumento delle ostilità».

Il grazie ad Erdogan serve ad Hamas per mascherare le difficoltà del dibattito interno, a dir poco lacerante, che anticipa le elezioni di fine autunno per il rinnovo della direzione politica del movimento. Dibattito che vede sulla graticola il capo dell’ufficio politico, Khaled Meshaal, contestato da più parti. Alla fine del 2012 Meshaal entrò a Gaza da leader indiscusso, sull’onda della conclusione “vittoriosa” del penultimo scontro militare diretto tra Hamas e Israele, e mise termine alla storica alleanza della sua organizzazione con la Siria di Bashar Assad e l’Iran per abbracciare il Qatar e la Turchia, sponsor dei Fratelli Musulmani, incurante dell’opposizione dell’ala militare (Brigate “Ezzedin al Qassam”) e di un fondatore del movimento islamico palestinese, Mahmoud Zahar, messo frettolosamente in disparte. Quattro anni dopo Meshaal – convinto, pare, a non ricandidarsi – vede tutta la sua strategia in frantumi, con Erdogan che rilancia l’alleanza tra Turchia e Israele e il Qatar fortemente ridimensionato nelle sue ambizioni dall’Arabia saudita, storica avversaria dei Fratelli Musulmani.

Che in Hamas i delusi dalle scelte di Erdogan e, di conseguenza, della linea di Meshaal, siano ora la maggioranza, è stato chiaro all’inizio di giugno. Il numero 2 dell’ufficio politico, Musa Abu Marzouq, vicino a Meshaal fino poco tempo fa, davanti alle telecamere di al Aqsa Tv, ha elogiato apertamente il sostegno dell’Iran «alla causa della resistenza». Abu Marzouq ha spiegato che l’Iran ha appoggiato la causa palestinese «come nessun altro ha fatto», lasciando capire che la Turchia e le monarchie sunnite si sono dimostrate molto meno generose, finanziariamente e soprattutto politicamente, degli “sciiti” siriani, libanesi (Hezbollah) e iraniani. In sostanza ha dato ragione a quanto diceva e prevedeva Mahmoud Zahar tra gli sbadigli di Meshaal (Zahar nel 2014, durante l’offensiva israeliana “Margine Protettivo”, ha recuperato prestigio e potere grazie all’appoggio dell’ala militare).

I dirigenti di Hamas si mantengono abbottonati sugli sviluppi del dibattito interno. Qualcosa però trapela, grazie a militanti che accettano di parlare in condizione di anonimato. «Il nostro movimento riconosce di essere stato vittima di un grave inganno da parte di alcuni dei suoi alleati del Golfo – ci dice uno di questi, un sostenitore di Zahar – Hanno convinto Meshaal della inevitabilità della caduta del regime siriano che, dicevano, sarebbe avvenuta nel giro di pochi. Gli hanno spiegato che l’avvento al potere dei Fratelli Musulmani in Egitto (poi rovesciati dal golpe militare del 2013, ndr), unito a quello di Erdogan in Turchia, avrebbe trasformato la mappa del potere in questa regione. Lui ha sbagliato a fidarsi, ha scelto nuovi amici tagliando i rapporti con quelli vecchi». Alcuni rimproverano a Meshaal anche di aver appoggiato subito la campagna militare saudita (“Operazione Tempesta”) contro i ribelli sciiti in Yemen facendo arrabbiare l’Iran, senza ricavarne alcun vantaggio per l’organizzazione.

Abu Marzouq è considerato il favorito nella corsa alla leadership di Hamas, sarebbe in vantaggio sul “premier di Gaza” Ismail Haniyeh che, pur godendo di consenso popolare, paga per aver legato troppo la sua sorte politica a quella di Meshaal. Intanto se Abu Marzouq corteggia l’Iran non è detto che Tehran sia disposta a mettere una pietra sopra a quanto è avvenuto negli ultimi 3-4 anni. Bashar Assad inoltre avrebbe posto il veto a ogni serio tentativo di riavvicinamento con Hamas fintanto che Meshaal resterà alla testa del movimento islamico palestinese.