Le notizie vanno nella direzione temuta dai richiedenti asilo sudanesi in Israele. Una tv locale riferisce che il Sudan – che la scorsa settimana ha avviato le relazioni con lo Stato ebraico – è disposto a discutere tempi e modi per riportare a casa i suoi cittadini fuggiti negli anni passati e ora in Israele. «Mi risulta che le due parti abbiano già concordato un programma pilota per il rimpatrio di diverse centinaia di sudanesi. E penso che dopo queste prime centinaia se ne andranno diverse migliaia», assicura il ministro dell’energia Yuval Steinitz. Il suo collega Ofir Akunis sottolinea che il rimpatrio dei sudanesi «è un aspetto importante della normalizzazione tra i paesi». Non è un mistero l’intenzione delle autorità israeliane di cacciare via migranti e richiedenti asilo e i rapporti avviati con il Sudan offrono una opportunità d’oro. Lo stesso premier Netanyahu qualche anno fa non esitò a descrivere la presenza di tanti africani, entrati senza permesso dal Sinai, come una «minaccia» al carattere ebraico di Israele.

 

«Siamo molto preoccupati, sentiamo che saranno messi in atto piani pericolosi per tutti noi», ci dice Anwar Suleiman, un rappresentante dei circa 6mila sudanesi in Israele. Suleiman ha appena saputo che Netanyahu intende mettere in piedi un comitato ad hoc con l’incarico elaborare un piano per il rimpatrio dei migranti e dei richiedenti asilo in collaborazione con le autorità sudanesi. «Non pochi di noi hanno accolto con favore l’accordo (tra Tel Aviv e Khartum) e non escludiamo di poter rientrare un giorno in Sudan. Ma lo faremo solo con condizioni di piena sicurezza per ognuno di noi», spiega Suleiman aggiungendo che nel Sudan post-Omar Bashir «dissidenti ed oppositori politici corrono ancora seri pericoli. La maggior parte di noi proviene dal Darfur e da altre regioni dove sono ancora in corso conflitti violenti».

 

Il ministro Okunis afferma che anche i migranti dal Darfur possono essere deportati perché «la situazione è completamente diversa rispetto a qualche anno fa». E l’Israeli Immigration Policy Center (Iipc), una «ong» di destra che invoca la deportazione dei migranti africani e la loro evacuazione dalle città israeliane, sostiene che oltre 5.000 sudanesi in questi ultimi anni sarebbero tornati nel loro paese «volontariamente», inclusi quelli del Darfur. Le pressioni di gruppi come l’Iipc e di porzioni significative dell’opinione pubblica, unite alle politiche dei governi di destra guidati da Netanyahu, hanno spinto le autorità a non concedere l’asilo politico ai sudanesi che ricevono, quando sono fortunati, un «permesso umanitario». Dal 2009 al 2018 soltanto 10 eritrei e un sudanese sono stati riconosciuti come rifugiati.

 

«Sono in Israele dal 2012 e il mio status legale è A-5, una specie di residenza temporanea e l’ho ottenuta solo perché lo ha deciso una corte civile – ci dice un altro richiedente asilo, Momim Harun – poi ho dovuto far ricorso alla Corte suprema perché, nel frattempo, il ministro dell’interno aveva presentato l’appello contro la sentenza della corte. Perciò sono sempre in bilico, pur vivendo qui dal 2012». Harun teme che la normalizzazione tra Israele e Sudan possa dare inizio a una nuova ondata di «partenze incentivate» di africani, come un paio d’anni fa. «Ci sentiamo in pericolo – aggiunge – negli ultimi mesi abbiamo assistito a un aumento della violenza in Sudan. Non c’è ancora stato un cambiamento vero sul terreno, rischiamo guai grossi una volta tornati a casa».

 

Sigal Avivi, una storica attivista dei diritti di migranti e richiedenti asilo africani, dice che le intenzioni del governo Netanyahu sono note. Tuttavia, aggiunge, «pur raggiungendo un accordo con il Sudan sulla migrazione e i richiedenti asilo, Israele non potrà espellere i sudanesi, perché deve tener conto delle disposizioni internazionali in materia che sono molto precise. Almeno ce lo auguriamo».