L’accordo di uscita dall’Ue di Theresa May è stato di nuovo sconfitto, per 242 a 391, 149 voti contro. Sconfitta non schiacciante come la precedente, nondimeno più che netta. Vuol dire che oggi si vota se lasciare l’Ue senza un accordo o meno. E che giovedì si voterà su una proroga di tre mesi dell’uscita fissata il 29 marzo. Di più non è dato sapere.

ERA IL SECONDO VOTO “significativo” sull’accordo di Theresa May sull’uscita dall’Ue già significativamente bocciato a gennaio dalla Camera. Ieri la premier lo ha riproposto tale e quale, dopo avergli dato poco più di una rassettata quando sapeva che avrebbe dovuto cambiarlo sostanzialmente. Si sapeva non sarebbe passato, bisognava solo sapere di quanto.

Sulla dimensione della sconfitta, May si giocava tutto. Se ridotta, avrebbe potuto mettere qualche altro cerotto all’accordo e riproporlo ancora. Ora gli sviluppi potrebbero essere, in ordine sparso: la fine di Theresa May premier, elezioni anticipate, l’estensione inutile di altri tre mesi dell’articolo 50, un’uscita senza accordo dall’Unione o una permanenza indefinita nella stessa.

C’ERA LA SPERANZA che, indotti a pietà dallo strazio psicofisico della premier e dal di lei edificante spirito di sacrificio più che dai risultati politici strappati, ma soprattutto davanti alla terrore di A) vedersi catapultati fuori nell’iperspazio anarco-commerciale del Wto oppure B) di restare prigionieri a vita nella terra di mezzo eurokafkiana, alcuni di quelli che avevano votato contro l’accordo a gennaio potessero ravvedersi. Non sono stati abbastanza.

May aveva cercato di ottenere cambiamenti che permettessero al Regno Unito di servirsi unilateralmente di un meccanismo di uscita dal backstop, che è una sorta di assicurazione che Brexit non provocherà la reintroduzione di un confine fisico tra le due Irlande mantenendo quella del Nord – e quindi tutto il Regno – dentro l’unione doganale fin quando non si trovi un assetto futuro dei rapporti fra le parti. Ma che lascia anche aperta la porta al rischio che il Paese resti indefinitamente invischiato nelle sabbie mobili europee. A questi cambiamenti, che avrebbero ammansito gli euroscettici e il Dup che la tiene in bilico da mesi inducendoli finalmente a votare a favore del suo accordo, Juncker & Co. finora avevano opposto un diniego netto, per dimostrare ad altri riottosi quanto è difficile lasciare il club.

Da cui l’ultima, drammaturgica puntata continentale fuori tempo massimo lunedì sera di May dalla quale era tornata sfinita, ma ottimista. Salvo che i cambiamenti all’accordo sono appunto di forma, non di sostanza. Nulla di quello che avrebbe indotto i critici dell’accordo a più miti consigli, come anche rilevato dall’Attorney General Geoffrey Cox (Tory) in un parere che ha dato il colpo di grazia alle chance dell’accordo di passare in aula.

Già prima del voto le due spine principali nel fianco di May, gli “alleati” del Dup e gli euroscettici neoisolazionisti di Rees-Mogg, avevano annunciato pollice verso, come naturalmente Corbyn già qualche ora prima, durante il dibattito in aula. Dibattito che era lecito aspettarsi almeno moderatamente acceso data la posta in gioco, non il consesso stanco e trascinato che si è rivelato. Ma la stanchezza cronica da Brexit è ormai palpabile e diffusa.

IN THERESA MAY, ritornata fisicamente a brandelli dall’ultimo pellegrinaggio notturno a Strasburgo, in tasca un accordo al quale era stato cambiato il font e la formattazione più che il contenuto. Alla Camera dei Comuni, semideserta nonostante l’importanza del dibattito mentre lei ripeteva, con la poca voce rimastale, che il parlamento poteva – e doveva – finalmente sostenerlo il suo accordo di uscita dall’Ue, ora che gli agognati “vincoli legali” che avrebbero permesso alla Gran Bretagna di sfuggire alla permanenza indefinita nell’Unione erano stati ottenuti (non era vero ma che importa). E nell’opinione pubblica, che attraverso i sondaggi va sempre più compattandosi nella propria esasperazione per le lungaggini della saga. Get on with it!, Andiamo avanti!, come ripetono ormai non solo i brexittieri più incalliti. Non importa dove, purché tutto questo finisca.