Cessate il fuoco entro 4-6 mesi, governo di transizione formato da Assad e dai membri delle opposizioni (seppure sui tempi dell’interim del presidente nessuna decisione sia stata presa) e formazione di un corpo speciale che rediga le riforme costituzionali e dia suggerimenti sullo svolgimento delle elezioni parlamentari e presidenziali. È questo il risultato preliminare di sette ore di discussione a Vienna tra 17 paesi, Onu e Ue: nove punti, base dell’intesa internazionale.

«Il prossimo round – ha detto in conferenza stampa il ministro degli Esteri russo Lavrov – si terrà entro due settimane». Ma il dialogo potrebbe proseguire prima, sul piano militare, fa intendere il segretario di Stato Usa Kerry dopo il meeting: «Presenterò idee di collaborazione al presidente Obama, di cui è necessaria l’approvazione, dopo il memorandum siglato con la Russia per evitare scontri aerei».

Un risultato inatteso vista l’immagine che rimbalzava ieri sui media, esplicativa delle tensioni tra i due fronti: Kerry e Lavrov al centro, Iran e Arabia saudita il più lontano possibile l’uno dall’altro. Ma al di là delle posizioni note la partecipazione di Teheran, accettata da Riyadh, era già di per sé lo specchio della volontà di giungere ad un compromesso. La Repubblica Islamica aveva già ventilato la possibilità di una sostituzione di Assad: il presidente resterebbe sei mesi in vista delle elezioni che lascerebbero ai siriani l’ultima parola. Ieri il vice ministro degli Esteri Abdollahian avrebbe reiterato, ufficiosamente, l’appoggio all’interim di sei mesi a cui segua il voto popolare: «L’Iran non insiste sul mantenimento di Assad al potere per sempre». L’impressione è che il più interessato alla pace sia proprio l’Iran, per cui la stabilità della regione è precondizione per espandere la propria influenza sui vicini e dispiegarvi la propria potenza economica.

Anche per Mosca Assad non è precondizione irrinunciabile, purché parte del suo entourage resti per garantire gli interessi russi nella regione. Lo spazio per trattare c’è, anche alla luce dei risultati della campagna aerea russa: dopo i primi successi archiviati ad Hama, Idlib, Aleppo, che hanno permesso l’avanzata dell’esercito governativo, le ultime due settimane hanno visto un arretramento di Damasco che ha perso alcune aree strappate ai gruppi islamisti. Al centro delle attenzioni resta Aleppo, oggi nel mirino dello Stato Islamico: dopo aver mantenuto le distanze dalla seconda città siriana, l’Isis ha occupato la sola strada ad ovest di Aleppo.

Da qui la necessità, secondo Mosca, di coinvolgere le opposizioni moderate: ieri il vice ministro degli Esteri Bogdanov ha detto di aver scambiato con l’Arabia saudita una lista di gruppi anti-Damasco che possano partecipare alla transizione politica. Ha poi aggiunto che la Russia è pronta a sostenere l’ingresso dell’Esercito Libero Siriano nel processo di pace: «L’opposizione dovrebbe coordinare approcci comuni e formare una delegazione che li promuova nell’ambito del negoziato con il governo».

Quasi una chimera: le opposizioni moderate sono frammentate, poco rappresentative e assenti dalla gran parte dei campi di battaglia. Nonostante ciò sono anche le più restie ad un accordo: la reazione della Coalizione Nazionale Siriana al piano di Vienna è fredda. «Chi è tanto pazzo da credere che con le attuali circostanze [metà della popolazione rifugiata] si possano tenere elezioni? – ha detto George Sabra, ex presidente della Coalizione – Assad e il suo regime sono la radice del terrorismo».

Ma il compromesso tra i due fronti è ormai obbligato. Allo stesso tempo, però, guardando il campo di battaglia, pare ancora inapplicabile. Le sirene della guerra, ben distanti dalle luccicanti stanze dell’Hotel Imperial di Vienna, risuonavano in tutta la loro drammaticità: ieri missili dell’esercito governativo siriano hanno centrato il quartiere di Douma, a Damasco, roccaforte delle opposizioni. Almeno 40 i morti. Nelle stesse ore gli Stati uniti annunciavano l’invio di 50 unità speciali nel nord della Siria, per coordinare le forze alleate e coinvolgere i combattenti kurdi che hanno preso il posto, nel portafoglio Usa, dei ribelli addestrati in Turchia.