A passerelle ferme, si tirano i bilanci. Con la chiusura di Paris Fashion Week della scorsa settimana, la moda femminile per il prossimo inverno ha scoperto tutte le sue carte. Che sono vincenti, se si guarda alla creatività, meno se le si usa come indicatore dello stato di salute psichica del sistema, perché la salute fisica sembra buona, fatti però i conti con gli acciacchi della vecchiaia. A Milano e a Parigi, ormai confermatesi le due piazze di una creatività interessante allontanando su questo punto, forse per sempre, la concorrenza di New York e Londra, i designer hanno confermato una piena padronanza nella lettura del nostro contemporaneo.
Che, alla fine, è quanto è richiesto alla moda.

A Milano, per esempio, si è passati da un’indagine sulla strutturazione dei significati dell’abito di Miuccia Prada, che assume sempre di più i tratti di una semiologia del vestito fatta con i vestiti anziché con le parole come avrebbe fatto un Roland Barthes di oggi (che non esiste) e che viaggia in solitaria nella sua imperterrita convinzione che la moda è un produttore di idee anche quando non si prende volutamente sul serio (come ha dimostrato anche con la sua collezione di Miu Miu presentata a Parigi), alla descrizione critica degli usi e costumi dell’attualità di cui Alessandro Michele da Gucci è stato l’incidente scatenante e a cui si sono allineati molti colleghi con professionalità di lungo corso, eterni debuttanti e giovani promesse. Ma di questo ManiFashion ha già parlato.

A Parigi, invece, si nota un doppio passo preoccupante ma interessante. Mentre molti nomi leader restano ancorati a una concezione della moda come rappresentazione del proprio potere economico, dai marchi più piccoli arrivano esempi di sperimentazione creativa che vanno nella direzione opposta, cioè verso il tentativo di rimescolare le certezze e intraprendere strade nuove.

Il debutto riuscito di Demna Gvasalia da Balenciaga, che ha lavorato su un riposizionamento delle forme, fa il pari con le riflessioni sul macro di Phoebe Philo da Céline, con l’emozionalità di Chiuri e Piccioli da Valentino, con le sovrapposizioni di forme e di volumi di Sacai, con l’inarrivabile immaginario che messa in discussione le manie della modernità di Rey Kawakubo per Comme des Garçons e con la teatralità che mette in discussione la società glassata odierna, eredità degli Anni 80, descritta nel suo momento di rappresentazione come se fosse un set fotografico gelidamente satirico preparato per Helmut Newton, di Hedi Slimane per Saint Laurent.

A Milano come a Parigi il pregio di questa moda sta nell’aver rifiutato gli stereotipi femminili a cui molta parte della cultura dominante vorrebbe riportare le donne, a volte enfatizzandoli per evidenziarne l’inconsistenza con l’attualità, altre demolendo miti costruiti dall’immaginario maschile.

Il sistema, invece, mostra segni di invecchiamento. A parte la discussione sul «see-now-buy-now», definitivamente accantonata in quella parte del sistema americano che deve vendere una moda che è sostanzialmente prodotto, i maggiori segni di senescenza li mostrano le aziende troppo legate al gigantismo commerciale che da anni ha trasformato la moda nel veicolo pubblicitario di altri prodotti, in primis scarpe e borse. Questo fa sì che soffrano di più i marchi che non hanno una tradizione di abbigliamento.

Dall’altra, ci sono ancora troppi marchi privi di direzione creativa: per esempio ci si chiede come Dior non riesca a trovarne uno dopo sei mesi dall’uscita di Raf Simons. Da molti arriva una sola risposta: la creatività ha capito che per sopravvivere deve sottrarsi alla macchina infernale del marketing. Ne è la prova l’ultimo episodio che ha visto Ennio Capasa, direttore creativo di Costume National, abbandonare il marchio che ha fondato nel 1986 insieme al fratello Carlo, sotto le pressioni commerciali sempre più pressanti del fondo giapponese Sequedge, proprietario dal 2008.

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