«Mia madre era desaparecida. Ora non più». È con questa frase che si potrebbe riassumere Aparecida di Marta Dillon (pp. 225, euro16), pubblicato in Argentina nel 2015 e oggi edito da gran vía nell’ottima traduzione di Camilla Cattarulla, autrice anche dell’accuratissima e approfondita prefazione.

Giornalista e sceneggiatrice che ha diretto per il quotidiano Pagina/12 il supplemento Soy, dedicato all’universo Lbgtq, e che ora si occupa di Las 12, inserto femminista del medesimo giornale, Dillon è una delle fondatrici del movimento Ni Una Menos e membro di Hijos (Hijos y Hjas por la Identidad y la Justicia contra el Olvido Y el Silencio), associazione dei figli di ex prigionieri politici e desaparecidos, vittime dell’ultima dittatura militare.

Una militanza che si dispiega per intero in questo libro difficile da classificare, costruito combinando strategie testuali diverse e generi differenti, dall’autobiografia alla cronaca, dal giornalismo investigativo al diario intimo, sino a sfiorare il saggio sulla storia politica e sociale di un paese tormentato: un discorso ibrido in cui si fondono la concretezza dell’inchiesta sul campo, l’asettica crudeltà dei verbali di polizia, i termini della medicina legale, il gergo glaciale della burocrazia funeraria, l’elegia e il lamento, i rapidi appunti che inseriscono tra i dodici capitoli immagini oniriche e poetiche.

STORIE DI VITA, ricordi d’infanzia, la lunga ricerca di una madre perduta, tutto confluisce verso quell’unica frase: «Mia madre era desaparecida. Ora non più». Perché Aparecida parla di un’assenza riempita all’improvviso dall’Equipe Argentina di Antropolgia Forense cui si deve l’identificazione di quattro ossa e un cranio, tutto ciò che resta della madre di Dillon, Marta Taboada, avvocata e militante del Frente Revolucionario 17 Octubre, sequestrata nell’ottobre del 1976 nella casa in cui si era nascosta con i suoi figli e, dopo quattro mesi di detenzione e torture, assassinata su un marciapiede di Buenos Aires insieme a quattro compagni di prigionia (un’esecuzione che la polizia avrebbe mascherato da «scontro a fuoco» con un gruppo di terroristi).

IL LIBRO COMINCIA DA LÌ, dalla certezza che le ossa ritrovate nel cimitero di San Martín, chiuse in un sacco e confuse con altre, appartengono davvero a Marta Taboada; una notizia che sorprende la figlia mentre è in viaggio dall’altra parte del mondo, in Spagna, insieme alla moglie Albertina e al loro bambino Furio, concepito con «immensa passione e una vaschetta di seme» fornito da un amico di entrambe, che da quel momento diverrà un padre a tutti gli effetti (Furio ha tre genitori e tre cognomi, il primo caso di tripla filiazione riconosciuto da un tribunale argentino).

A partire da questo evento così tenacemente desiderato e perseguito, Dillon intraprende un percorso altalenante tra presente e passato, seguendo fili che si intrecciano fino a confondersi. Il primo è il racconto dettagliato del recupero e dell’identificazione dei resti, continuamente interrotto dal ricordo di una madre amatissima, della sua bellezza e vitalità, della sua ansia di giustizia mescolata alla capacità di sfidare le regole di una società ancora patriarcale e di infrangere la morale sessuale dell’epoca, appannaggio sia della dittatura che dell’intatto maschilismo degli oppositori.

OVUNQUE, infine, si insinua la storia personale dell’autrice, il rapporto difficile col padre e con la nuova famiglia di lui, quello impacciato con i fratelli più piccoli che della madre non hanno quasi memoria, episodi infantili, gli stretti legami di oggi con una vasta cerchia di donne, i figli e i nipoti, la convivenza con l’Hiv che le è stato diagnosticato nel ’94 e che è oggetto di un altro suo libro – Vivir con virus, del 2004 – , le nozze con la cineasta Albertina Carri (anche lei figlia di desaparecidos), avvenuto nel giorno in cui entrava in vigore la legge sul «matrimonio igualitario» (nozze in nero che si incrociano con il corteo funebre di Néstor Kirchner, colui che le aveva rese possibili).

A legare il tutto, le complesse conseguenze pubbliche e private della «apparizione», che segna allo stesso tempo una fine e un inizio e comporta un altro modo di vivere ed elaborare il lutto, ora che esiste un luogo in cui inscrivere il dolore e la morte.

Leit-motiv del libro sono le ossa: quelle di animali morti sulla spiaggia, presto inghiottite dalla sabbia, o di scheletri umani ricomposti nella loro interezza, oppure minuscole schegge, scatole piene di costole e femori, e soprattutto le ossa materne, che Dillon racchiude in una piccola bara sovraccarica di ornamenti preparata insieme alle amiche più care, «sorelle» che si riuniscono intorno a quell’ultimo giaciglio come una congrega di streghe benefiche, pronte a elargire ciascuna il suo dono. Ossa che, prima di venire onorate con un funerale pubblico destinato ad affermare una memoria collettiva e condivisa, si possono toccare, accarezzare, baciare.

Le ossa non sono che l’ultimo e depuratissimo aspetto di una carnalità fusionale, di una corporeità che trasuda da ogni pagina di Aparecida e consente di rinnovare un abbraccio mai dimenticato e di trasmetterlo a discendenti, amici, donne amate. Il corpo incompleto eppure presente dell’aparecida si impone, conferma la propria dimensione politica, trionfa sulla cancellazione e l’annientamento voluti dalla macchina dittatoriale, spande desiderio, proclama la propria dissidenza, si reincarna in vite future e finisce per trasformarsi nel testo stesso che Dillon va scrivendo, un testo che culla, tocca, accoglie.

La ricerca e la ricostruzione dei resti di Marta Taboada si fondono con i frammenti della vita di sua figlia e, stabilendo una linea di continuità tra due generazioni di donne, le trasmettono una passione militante diversa dalla propria eppure altrettanto intensa, motore di nuove leggi che cancellano l’impunità e affermano nuovi diritti, rivolgendo lo sguardo ai diritti umani, al femminismo, alla differenza sessuale, a nuovi modelli di famiglia e di affettività cui Dillon si riferisce di continuo e con orgoglio.

SIN DALLE PRIME PAGINE di Aparecida l’autrice riconfigura la militanza della madre alla luce delle proprie scelte, sottolineando sempre il rispetto per quelle di lei e l’adesione alla sua eredità, ovvero a un’etica materna che, pur riaffermando vincoli e legami, esclude l’annullamento di sé e innesta nella sfera pubblica la quotidianità dei gesti di cura e degli affetti.

Tra gli esponenti della cosiddetta «letteratura dei figli» che, come ricorda Camilla Cattarulla, a partire dal nuovo millennio ha visto l’avvento di «una nuova tipologia di autori, con la costituzione di un eterogeneo corpus di finzioni che presenta il punto di vista (sul passato e/o sul presente) dei figli degli oppositori del regime, siano essi desaparecidos, esiliati o prigionieri politici», non sono molti quelli che hanno saputo compiere un simile lavoro di «ricucitura» tra presente e passato, mettendo da parte rivendicazioni, sarcasmi o rancori. E nessuno, forse, ha mostrato una comprensione così profonda ed empatica per una maternità che continuamente si fonde o si allinea con quella della narratrice (madre a sua volta), conferendo al racconto uno slancio gioioso verso il futuro.

Aparecida, infatti, sembra possedere una qualità risanatrice che diventa quasi palpabile nel capitolo sulla preparazione della bara, in cui si percepisce l’eco del «barocco» letterario latinoamericano e del suo recupero della creatività popolare, pronta ad accostare vita e morte con assoluta naturalezza.

Tra gli ornamenti della cassa destinata a contenere le ossa, piccola e bianca come quella di un bambino, c’è perfino una «Evita Montonera» dai capelli ingioiellati, a evocare il mito di una resurrezione impossibile, e sembra quasi di vedere allungarsi sulla festosa estetica queer scelta da Dillon le ombre di Pedro Lemebel e del poeta argentino Néstor Perlongher, il cui poema Hay cadaveres è non a caso esplicitamente citato nel testo (un ulteriore e pertinente collegamento con gli anni ’70, visto che Perlongher fu tra i fondatori del presto dissolto Frente de Liberación Homosexual).

Alcuni studi affermano che Aparecida ha inserito nella letteratura dei figli una prospettiva di genere, e non si può che essere d’accordo. Ma si potrebbe aggiungere che il libro di Marta Dillon, bellissimo e travolgente, rappresenta anche una svolta nel modo di confrontarsi con il durissimo passato dell’Argentina e, soprattutto, di re-immaginare il suo presente.