«La novella, la short story», scriveva Julien Green, «non è un romanzo breve, ma un racconto nel quale l’autore, quando gli sembra che tutto sia stato detto, si ferma. È allora che comincia il sogno». Quel «gli sembra che tutto sia stato detto» è ambiguo: nella sua pratica di scrittura, Green dice in realtà poco, molto poco, mentre molto lascia all’immaginazione del lettore. Le sue novelle non solo cominciano, ma finiscono anche in medias res, lasciando i personaggi – come i lettori – sospesi in una dimensione indecidibile, tra certezza e allucinazione, tra l’attaccamento alla dolorosa monotonia del quotidiano e il brivido, sconvolgente, del mistero.

Grazie alla casa editrice Nutrimenti, da un paio d’anni il pubblico italiano ha la possibilità di riscoprire questo scrittore americano di lingua francese nato a Parigi nel 1900 e morto nel 1998: l’ultima opera pubblicata è una raccolta di venti novelle mai tradotte, scritte tra il 1920 e il 1956, uscite per la prima volta in francese nel 1984, il cui titolo è Vertigine (Nutrimenti, a cura di Giuseppe Girimonti Greco e Ezio Sinigaglia, pp. 228, euro 17,00), che fa seguito al Viaggiatore sulla terra, del 2015. Come già in quel testo, la traduzione è affidata a diversi interpreti (oltre ai due curatori, Lorenza Di Lella, Francesca Scala e Filippo Tuena), che riescono a rendere in modo convincente la voce plurale e tuttavia uniforme di Green, bilingue anche nella scrittura (una delle novelle, L’apprendista psichiatra, fu inizialmente pubblicata in inglese).

Pur essendo state scritte in un arco temporale molto ampio, le novelle hanno numerosi punti in comune: quasi tutte, per esempio, ritraggono spazi chiusi e comportano una sostanziale immobilità dei personaggi, stretti nella loro solitudine o paralizzati dall’angoscia. Alcune situazioni tornano in modo ossessivo: ad esempio quella che vede bambini o adolescenti tiranneggiati da adulti sadici, o ancora quella in cui signore di una certa età, vedove o zitelle, pagano ragazzi più giovani per tenere loro compagnia e ingannare, ma di fatto anche alimentare, la loro frustrazione.

Il momento della giornata più ricorrente è il tardo pomeriggio, quando una luce obliqua e dorata – non salvifica e anzi spietata – colpisce i luoghi e rivela i personaggi a sé stessi. Contrariamente a quanto accade nei testi autobiografici e diaristici di Green, il tema dell’omosessualità è qui solo accennato, anche se spesso presente in filigrana, come nella più bella novella della raccolta, Fabien, nella quale un bambino, invaghito del proprio cugino più grande, si nasconde nella sua stanza e lo osserva a lungo, senza essere visto, fra l’ebbrezza e il terrore.

Diverse altre novelle ruotano intorno a fenomeni di voyeurismo, e emblematica è d’altronde la presenza di uno specchio in quasi ogni testo: simbolo talora di introspezione, talora di mise en abyme del processo di scrittura, lo specchio mette in difficoltà i personaggi, che preferiscono guardare gli altri più che guardare se stessi, o che vi percepiscono comunque una realtà distorta.

Specialmente nei testi segnati da fenomeni di sadismo o di vampirismo, e attraversati dal tremito della paura, è evidente l’influenza di Poe, che Green leggeva mentre frequentava l’Università della Virginia. L’interiorizzazione dell’esperienza è però molto più netta rispetto al maestro americano: il mistero non ci circonda, semmai ci riguarda. Alla domanda postagli in un’intervista televisiva «Che cosa intende per vertigine?», Green rispose per l’appunto: «Quando ci si sporge su se stessi, si scopre un abisso».