Cosa può fare un cittadino o i suoi familiari, oppure dei testimoni, di fronte a un abuso da parte di uomini in divisa? Sì, certo a cose fatte si può sempre cercare giustizia in un aula di tribunale, anche se i processi in questi casi sono un calvario, una lotta impari, destinata a durare anni e con buone probabilità di vedere umiliata la speranza di accertare la verità. Adesso però una cosa la si può fare subito. Chiamare il numero verde 800.588605. Si tratta di un punto di appoggio e primo intervento messo a disposizione da Acad, Associazione contro gli abusi in divisa Acad. È la prima volta che una simile iniziativa viene sperimentata in Italia e deve ancora crescere. È presentata ieri all’auditorium di piazza Libertà di Bergamo. C’erano 15 familiari delle vittime, tra questi anche Ilaria Cucchi, Lucia Uva e Domenica Ferrulli.

Grazie alla loro tenacia e a tanto coraggio le loro storie hanno fatto breccia sui media, anche se non hanno mai trovato veramente giustizia. Ma sono solo la punta dell’iceberg di un fenomeno che non può essere liquidato da parte della politica e delle forze dell’ordine facendo ricorso all’abusata categoria delle «poche mele marce». L’associazione Acad è nata lo scorso marzo. E’ il frutto di un lungo lavoro da parte di attivisti e semplici cittadini indignati dopo il caso di Federico Aldrovandi. Hanno cominciato a seguire i processi, hanno accumulato e propagandato materiale, film, libri, documenti. E così hanno conosciuto le famiglie delle vittime con cui hanno costruito un rapporto di vicinanza umana ed emotiva. Adesso mettono a disposizione questo numero verde. Il primo obiettivo è quello di non fare sentire solo chi è convinto di aver subito un abuso: potrebbe capitare a chiunque. «Il numero testimonia che tante persone si trovano o si sono trovate in queste condizioni», raccontano gli attivisti di Acad. L’idea è quella di combattere allo stesso tempo il senso di impotenza e il muro di paura e di omertà che circonda questi casi. Il numero è a disposizione non solo di chi subisce ma anche dei testimoni di soprusi polizieschi. E’ uno strumento che potrebbe servire a far emergere casi mai denunciati e del tutto sconosciuti. Infine ha lo scopo di fare rete, di mettere in contatto le vittime fra loro, di condividere esperienze e mettere a disposizione supporto prima di tutto legale anche grazie alla lunga esperienza e ai contatti raccolti nell’ambito della lotta alla repressione dei movimenti. Acad, spiegano, è solo un tassello nell’ambito di un’azione plurale. «Dall’iniziativa di questa sera parte un lavoro che deve interagire insieme ad altri soggetti sociali ed associazioni che magari hanno più capacità di mettere in discussione anche le leggi vigenti», dice Italo Di Sabato che aderisce ad Acad e fa parte dell’Osservatorio sulla repressione.

La ragione fondante e prioritaria è dare voce alle vittime. «Acad e il numero verde devono essere uno strumento per dare a loro la possibilità di farsi sentire». Ieri, oltre a Ilaria Cucci, Lucia Uva e Domenica Ferrulli, hanno raccontato le loro storie anche Mariella Zotti, moglie di Vito Daniele, morto nel 2008 durante un fermo in autostrada, Carmela Brunetti, sorella di Stefano, morto nel 2008 a seguito di un arresto, Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovani, morto nel 2009 nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Valle della Lucania dopo essere stato legato al letto per ore, Cira Antignano, madre di Daniele Franceschi, morto in un carcere in Francia nel 2010, Raimonda Pusceddu, madre di Stefano Gugliotta, picchiato a Roma nel 2010, Filippo Narducci, picchiato a Cesena nel 2010, Claudia Budroni, sorella di Dino, ucciso da un colpo di pistola sul raccordo anulare di Roma nel 2011 e Osvaldo Casalnuovo, padre di Massimo Casalnuovo. La storia di Massimo è stata raccontata anche da un documentario di Dario Tepedino. Massimo è morto il 20 agosto 2011, appena uscito dall’officina in cui lavorava con il padre a Buonabitacolo (Salerno). Guidava un motorino senza casco. A un posto di blocco due carabinieri dicono di avergli intimato l’alt ma che lui avrebbe accelerato per poi cadere. Due testimoni invece sostengono che è stato uno dei due carabiniere a dare un calcio al motorino facendolo cadere e uccidendolo.