Era una semplice preghiera a Wadi al Humus, guidata dallo sceicco Mohammed Hussein, su entrambi i versanti del Muro israeliano, accanto alle tende allestite dal locale comitato popolare. Per esprimere solidarietà alle famiglie che a inizio settimana hanno visto le loro case ridotte di macerie dalle ruspe dell’esercito israeliano in quella che sarà ricordata come la più imponente demolizione (12 edifici) in un solo giorno di abitazioni palestinesi negli ultimi decenni. Ieri in pochi attimi i soldati hanno spazzato via le tende e disperso centinaia di palestinesi in preghiera. «Non stavamo facendo nulla di male, pregavamo e loro (i militari) ci hanno lanciato contro candelotti lacrimogeni e granate assordanti», racconta Ismail Obeida.

Grande l’attenzione ieri di media e dei palestinesi per le conseguenze del pugno di ferro dell’esercito a Wadi al Humus. E per il 68esimo venerdì della Grande Marcia del Ritorno lungo le linee tra Gaza e Israele. Almeno 56 dimostranti sono stati feriti (38 da proiettili) dai soldati israeliani. Decisamente più basso l’interesse per l’annuncio fatto giovedì sera dall’Autorità Nazionale (Anp) Abu Mazen della istituzione di una apposita commissione che avrà l’incarico di attuare la decisione presa dal presidente Abu Mazen di non rispettare più gli Accordi di Oslo e quelli successivi firmati con Israele tra il 1993 e il 1995, inclusa la cooperazione in materia di sicurezza tra i servizi segreti palestinesi e quelli israeliani. «Alla luce dell’insistenza delle autorità di occupazione danneggiare tutti gli accordi firmati e i loro obblighi, annunciamo la decisione della leadership di smettere di lavorare in conformità con gli accordi firmati con la parte israeliana», ha proclamato il presidente palestinese al termine di una riunione con i vertici dell’Anp. Le sue parole però non hanno infiammato gli animi della sua gente. Nelle strade della Cisgiordania e ancora meno di Gaza ieri ben pochi discutevano delle decisioni di Abu Mazen.

Il presidente palestinese ha adottato negli ultimi due anni, dopo il riconoscimento fatto da Donald Trump di Gerusalemme come capitale di Israele, una linea più ferma nei confronti dell’Amministrazione Usa schierata dalla parte dello Stato ebraico. E ha cercato di dare delle risposte forti alle misure punitive del governo Netanyahu nei confronti dell’Anp. Come lo stop al trasferimento da Israele nelle casse dell’Anp dei fondi palestinesi generati dalla raccolta delle tasse decurtati della quota che il governo palestinese riserva ai sussidi per i prigionieri politici e alle loro famiglie. «I nostri soldi li vogliano tutti o niente», ha detto con coraggio Abu Mazen pur sapendo che quei fondi sono essenziali per la sopravvivenza dell’Anp. Ma non è abbastanza agli occhi di una popolazione di milioni di persone che dopo 52 anni resta sotto occupazione militare.

«Il disinteresse (palestinesi) non deve sorprendere – spiega al manifesto l’analista Hamada Jaber – non è la prima volta negli ultimi 2-3 anni che dal presidente giungono annunci di interruzione dei rapporti con Israele. E anche la cooperazione di sicurezza è stata proclamata in più di un’occasione. Poi non se n’è fatto nulla». Jaber aggiunge che «Ad accrescere lo scetticismo è l’annuncio della creazione di una commissione che dovrà trovare i modi per interrompere le relazioni con Israele. A tanti appare un modo per insabbiare la decisione». D’altronde non è chiaro cosa significhi in pratica l’interruzione dei rapporti e se si estenderà al riconoscimento palestinese di Israele. Intanto Israele tacendo fa capire di non considerare seria la mossa dell’Anp. Un segnale inequivocabile sarebbe la rottura, vera, della cooperazione di sicurezza. Ma nessun indizio porta in quella direzione e Netanyahu neppure commenta la notizia.

Secondo Hamada Jaber ad indurre Abu Mazen ad annunciare un passo del genere sarebbe stata la demolizione delle case a Wadi al Humus. I vertici dell’Anp, spiega, non potevano rimanere inerti di fronte ad un atto tanto grave compiuto dalle forze armate israeliane.