Tra tentazioni autoritarie e un presunto desiderio di farsi da parte, l’80enne presidente Abu Mazen intenderebbe confermare dopo l’estate due appuntamenti che fino a qualche anno fa rappresentavano scadenze fondamentali per la politica interna palestinese: a settembre il Consiglio Nazionale Palestinese (Cnp) – il parlamento dei palestinesi, nei Territori occupati e in esilio – e a novembre il settimo Congresso del suo partito, Fatah. L’idea sarebbe quella di far scorrere sangue fresco nelle arterie indurite dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), del suo Comitato esecutivo e anche in quelle di Fatah, per avviare nuove politiche dopo quelle fallimentari degli ultimi 20 anni segnate da negoziati inutili e intermittenti con Israele. Ma anche per contrastare meglio la crescita del movimento islamico Hamas che già controlla Gaza e che, secondo un’opinione diffusa, sarebbe il partito di maggioranza anche in Cisgiordania diversamente da ciò che indicano i sondaggi.

 

Abu Mazen negli ultimi anni, di pari passo all’impossibilità di trovare qualche tipo di intesa con il premier israeliano Netanyahu, ha irrigidito la sua politica interna, finendo per assumere un atteggiamento autoritario verso avversari dissidenti. Dopo il conflitto con l’ex uomo forte di Fatah a Gaza, Mohammed Dahlan, espulso da Fatah ma mai definitivamente sconfitto (resta influente in Cisgiordania e a Gaza), Abu Mazen è andato allo scontro aperto con l’ex premier e un tempo suo alleato Salam Fayad – accusato di progettare un “golpe” – e più di recente ha rotto le relazioni con Yasser Abed Rabbo, portavoce dell’Olp durante la prima Intifada e uno degli esponenti palestinesi più noti negli anni successivi alla firma degli Accordi di Oslo del 1993. Abed Rabbo, accusato di essersi avvicinato a Mohammed Dahlan, prima si è scoperto “dimissionato” dall’incarico di Segretario del Comitato esecutivo dell’Olp e poi si è visto sequestrare i fondi della sua ong, Palestinian Peace Coalition, fondata nel 2003 con l’appoggio dell’allora presidente Yasser Arafat. Due mesi fa invece furono confiscati i fondi (10 milioni di dollari) di ‘Future of Palestine’, un’altra ong guidata da Salam Fayyad.

 

Da un lato l’atteggiamento di Abu Mazen gode dell’appoggio della maggioranza di Fatah e di un numero significativo di palestinesi, che non hanno mai avuto particolare stima e simpatia per Abed Rabbo, Dahlan, Fayyad. Dall’altro serve a mascherare la crisi della linea di Abu Mazen che per anni ha creduto di realizzare i diritti dei palestinesi dando fiducia alla mediazione degli Stati Uniti che non sono e mai saranno arbitri neutrali nel questione israelo-palestinese. Ed è utile anche per rimuovere i riflettori puntati sulla cooperazione di sicurezza tra l’intelligence palestinese e quella israeliana, largamente contestata nei Territori occupati. Senza dimenticare il fallimento di Abu Mazen nella vicenda di Gaza. La riconciliazione con Hamas non è mai avvenuta, anche per le gravi responsabilità dello stesso presidente palestinese. La Striscia resta sotto il pieno controllo del movimento islamico che da parte sua, deciso a tenersi stretta la muniscola Gaza, cerca ora di trovare un accordo separato con il “nemico israeliano”, a svantaggio dell’unità territoriale palestinese.

 

Stando a quanto riferiva un paio di giorni fa Hani al Masri sul quotidiano palestinese al Ayyam, Abu Mazen starebbe pensando di dimettersi nei prossimi mesi e potrebbe annunciare una decisione definitiva durante la riunione allargata di 300 rappresentanti politici che si terrà dopo la sessione del Consiglio Nazionale Palestinese. «È diritto del presidente pensare di passare il suo mandato – ha scritto Masri – perché conservarlo significa sostenere la farsa del cosiddetto processo di pace e la situazione attuale che sta ulteriormente emarginando la causa palestinese e approfondendo l’occupazione e gli insediamenti colonici. Il suo ritiro dalla carica dopo aver rinnovato la legittimità palestinese, attraverso il Cnp e il Congresso di Fatah, può essere la soluzione più appropriata».

 

Tuttavia è legittimo domandarsi, come fa un altro politologo palestinese molto noto, Talal Akwal, che senso ha parlare di rinnovamento delle istituzioni e di un nuovo presidente, quando forze politiche di massa come Hamas sono fuori dall’Olp e non è prevista una iniziativa democratica in cui i diritti di tutte le parti siano riconosciuti. Manca un “contratto sociale” fondato sui principi che mettono insieme tutti i palestinesi. Il timore di tanti è che la convocazione frettolosa del Cnp serva in realtà solo ad aprire la strada al successore di Abu Mazen, gradito a Usa e Europa ma non riconosciuto da tutti i palestinesi, laici e islamisti. Come Majed Faraj, il capo dell’intelligence dell’Anp indicato da più parti come colui che prenderà il posto di Abu Mazen.