È (quasi) ufficiale. Il vice presidente Usa Mike Pence farà meglio a non andare a Ramallah durante il suo prossimio tour nella regione. Il presidente palestinese Abu Mazen non lo riceverà in risposta alla decisione di Donald Trump di riconoscere unilteralmente Gerusalemme capitale di Israele, prima ancora di una ripresa del negoziato israelo-palestinese. Una coltellata alla schiena alla quale non può non reagire Abu Mazen, il più esposto alle conseguenze politiche del passo fatto dal presidente americano. «Non ci sarà alcun incontro con Pence, gli Stati Uniti hanno passato una linea rossa che non avrebbero dovuto attraversare», ha annunciato il consigliere diplomatico presidenziale Majdi Al Khalidi alla radio palestinese. Pare che Abu Mazen abbia ricevuto pieno appoggio alla linea della fermezza da re Abdallah di Giordania, anch’egli sui carboni ardenti visto che si proclama «custode» dei luoghi santi di Gerusalemme. «Re Abdallah di Giordania è con Abu Mazen, entrambi hanno deciso che un negoziato con gli americani a fare da mediatori non sarà possibile sino a quando Trump non ritirerà la sua dichiarazione su Gerusalemme», ci spiegava ieri Nasser Atta, un giornalista. Non pochi palestinesi però arricciano il naso e già temono che il presidente presto metterà da parte i buoni propositi e nel giro di qualche settimana, sotto la pressione dei governi occidentali, riprenderà i contatti con Washington. E che Trump possa fare retromarcia è impossibile nei sogni anche dei più ottimisti. Non si può escludere peraltro che l’Amministrazione americana punti proprio su questa interruzione dei rapporti con Ramallah per portare avanti il “Great Deal”, il suo piano per un accordo di pace tra Israele e una serie di Paesi arabi a maggioranza sunnita, e per buttare la chiave del cassetto in cui è chiusa la questione palestinese.

Comunque sia Abu Mazen ora non può che seguire la sua gente e lasciar sfogare lo sdegno e la rabbia popolare. E deve scommettere anche sul buon esito del processo di riconciliazione con Hamas che appena qualche giorno fa sembrava sul punto di crollare. Il movimento islamico, assieme ai cugini del Jihad Islami, da Gaza sono tornati a invocare la terza Intifada contro l’occupazione israeliana e questo spingere degli islamisti sull’acceleratore impone un’alta velocità al cauto e moderato Abu Mazen. Pesano, e tanto, anche gli ultimi morti di Gaza. Due manifestanti, Mahmoud al Masri e Maher Atallah, sono stati uccisi invocando il nome di Gerusalemme durante le manifestazioni di venerdì contro Trump e gli Stati Uniti. Poche ore dopo due palestinesi di Gaza, Mohammed Safadi e Abdallah al Atal, sono morti per le esplosioni dei missili sganciati su Gaza venerdì notte dall’aviazione israeliana, dopo il lancio di tre razzi in direzione di Sderot (non ci sono stati danni alle persone).

L’epicentro delle proteste resta Gerusalemme Est. Nel settore arabo della città ieri si sono vissute ore di tensione come non accedeva dallo scorso luglio, quando decine di migliaia di palestinesi occuparono pacificamente le strade intorno e dentro la città vecchia per protestare contro i metal detector e altre misure di controllo introdotte da Israele sulla Spianata della moschea di Al Aqsa, il terzo luogo santo dell’Islam. In via Salah Edin, il cuore commerciale di Gerusalemme est, gruppi di donne, in gran parte studentesse, e altre dozzine di palestinesi hanno marciato, o almeno hanno tentato di farlo, in corteo urlando slogan contro Trump, il premier israeliano Netanyahu e i Paesi arabi “moderati”, accusati di restare a guardare. «Gerusalemme è palestinese, è araba» hanno scandito avviandosi verso la Porta di Erode, nella città vecchia. Decine di poliziotti li hanno fermati subito e non certo con le buone maniere. Con il passare dei minuti la brutalità della repressione è cresciuta proporzionalmente con l’intervento degli agenti a cavallo che si sono lanciati al galoppo più di una volta contro i manifestanti, disperdendoli, e non hanno esitato a prendere di mira anche i giornalisti, costretti a cercare scampo nei pochi negozi con la porta socchiusa. Nutrito il lancio di granate assordanti.

Salah Edin si è trasformata in un campo di battaglia dove a colpire però erano solo i più forti. Eppure i manifestanti non hanno ceduto, dopo ogni carica sono tornati a radunarsi e a scandire slogan, soprattutto le donne. E lo hanno fatto per quasi tre ore. Questa è una novità per i palestinesi di Gerusalemme. Trump con il riconoscimento unilaterale di Gerusalemme capitale di Israele ha stretto l’alleanza con il governo del premier di destra Netanyahu ma ha anche rafforzato l’unità palestinese, ha avvicinato Abu Mazen al leader di Hamas Ismail Haniyeh, ha rilanciato la mobilitazione nei Territori occupati e ha spinto nelle strade gli abitanti palestinesi della città santa. Non è ancora chiaro come si evolverà la situazione nei prossimi giorni e se il vento della rabbia che soffia da Gerusalemme incendierà Cisgiordania e Gaza di più di quanto abbiamo visto in questi giorni. In quel caso la terza Intifada palestinese non resterebbe solo una ipotesi. Ieri la Mezzaluna Rossa ha comunicato di aver portato soccorso a 92 manifestanti rimasti feriti a causa di lacrimogeni, proiettili veri e proiettili di gomma sparati dagli israeliani. Almeno 10 palestinesi sono stati feriti a Gaza da colpi d’arma da fuoco sparati lungo le linee di demarcazione con Israele.