«È la peggior legge approvata dall’Autorità nazionale palestinese. Un palestinese (in Cisgiordania, ndr) può essere arrestato con accuse vaghe, solo per aver scritto qualcosa sui social. Con questa legge si fa un salto all’indietro, si demolisce una storia interna di libertà di pensiero e di espressione del popolo palestinese». È secco il giudizio sulla Cyber Crimes Law di Nadim Nashif, fondatore di Aamleh, associazione per lo sviluppo della comunicazione digitale nella società civile palestinese. Si tratta in realtà di un decreto firmato il 9 luglio dal presidente Abu Mazen ma di fatto ha valore di legge visto che non c’è un Parlamento che può approvarlo o bocciarlo. Quella di Nashif non è una protesta isolata perché cresce lo sdegno dei palestinesi. Le manifestazioni si moltiplicano e sette giornalisti arrestati negli ultimi giorni dalla polizia dell’Anp hanno cominciato in cella uno sciopero della fame di protesta.

I giornalisti detenuti sono Mamduh Hamamra corrispondente di Al-Quds News, i giornalisti della tv al Aqsa Tareq Abu Zaid e Ahmad Halayqa, Amer Abu Arafe dell’agenzia Shehab e i freelance Islam Salim, Qutaiba Qassem e Thaer al Fakhouri. Tutti avevano anche pubblicato articoli sui alcuni dei 30 siti d’informazione chiusi dall’Anp, spesso perché vicini al movimento islamico Hamas o a Mohammed Dahlan, l’ex “uomo forte” del partito Fatah e ora avversario di Abu Mazen. E a Gaza le cose non vanno certo meglio. Anche la polizia di Hamas non si tira indietro quando deve arrestare giornalisti e blogger che criticano il movimento islamista. Ha già trascorso un mese in carcere, con l’accusa generica di “reati contro la sicurezza nazionale”, Fouad Jaradeh, corrispondente da Gaza di Palestine TV, la tv dell’Anp.

Tutti i giornalisti arrestati in Cisgiordania sono accusati di aver violato l’articolo 20 della Cyber Crimes Law che prevede un anno di carcere o una sanzione pecuniaria da 280 a 1.400 dollari per chi «crea o gestisce un sito web o una piattaforma dell’informazione che metta in pericolo l’integrità dello Stato palestinese, dell’ordine pubblico e la sicurezza esterna dello Stato». Si parla anche di informazioni passate a «parti ostili» non meglio precisate. Di quale Stato di Palestina parli la legge non si sa, dato che i palestinesi vivono sempre sotto occupazione militare, le loro terre sono oggetto di una massiccia attività di colonizzazione israeliana e di espropriazione e l’Anp è solo una struttura amministrativa in città e aree autonome senza alcun potere realmente sovrano.

La legge non colpisce solo i giornalisti. Sono presi di mira tutti coloro, secondo i servizi dell’Anp, mettono a rischio l’unità nazionale e la «sicurezza dello Stato». Anche semplici post su Facebook e altri social sono esaminati con attenzione. E chi usa parole giudicate “offensive” nei confronti del presidente dell’Anp Abu Mazen corre il rischio concreto di un “colloquio” con gli agenti del mukhabarat, i servizi di sicurezza. Difende la legge il procuratore Ibrahim Homudeh. «Una cosa è criticare il presidente e un’altra è accusarlo di essere un traditore e offenderlo. In questo secondo caso si commette un crimine contro la massima espressione dello Stato e la sicurezza di tutti i palestinesi», ha commentato Homudeh.

Shawan Jabarin, del centro per i diritti umani al Haq, ha annunciato di aver inviato una relazione, sulle conseguenze dell’applicazione della legge in Cisgiordania, a David Kaye, il Rapporteur speciale delle Nazioni Unite per la libertà di espressione.