È trascorso poco più di un mese dal riconoscimento unilaterale di Gerusalemme capitale di Israele fatto da Donald Trump e il presidente Abu Mazen e i principali esponenti dell’Autorità nazionale palestinese e dell’Olp ripetono che non incontreranno rappresentanti dell’Amministrazione Usa e non negozieranno con Israele sulla base di un eventuale piano americano sino a quando la Casa Bianca non tornerà sui suoi passi. E ribadiscono che gli Stati Uniti non potranno più svolgere il ruolo di mediatori. Per questo non riceveranno il vice presidente Usa Mike Pence durante il suo viaggio in Medio Oriente previsto nella seconda metà del mese. Intervenendo ieri alla radio dell’Anp Voce della Palestina, il segretario generale dell’Olp Saeb Erekat è stato chiaro: «La leadership palestinese non accetterà alcuna offerta di negoziati fino a quando sarà annullata la decisione americana su Gerusalemme». Quindi ha accusato Washington di volersi imporre sulla leadership palestinese smantellando l’Unrwa, l’Agenzia dell’Onu che assiste i profughi palestinesi, proprio come chiede il premier israeliano Netanyahu.

Tuttavia ai vertici dell’Anp, dietro questa fermezza condivisa dalla totalità della popolazione palestinese, si discute dei prossimi passi. Portare la Palestina nelle organizzazioni internazionali per ora è l’unica strategia anche se in questi anni non ha poi dato risultati sul terreno. Abu Mazen, il suo “vice” Mahmoud Aloul, Saeb Erekat e alcuni alti dirigenti come Jibril Rajoub, intendono anche proseguire il confronto duro con l’Amministrazione Usa e resistere alle pressioni. Altri pensano che il braccio di ferro alla lunga non potranno che vincerlo gli americani e gli israeliani considerando la forte dipendenza dell’Anp dagli aiuti internazionali, finanziari e politici. Tutti concordano su un punto: evitare lo scoppio di una nuova Intifada palestinese che finirebbe per travolgere la stessa Anp, più debole che mai. I rapporti futuri con gli Usa che hanno consegnato Gerusalemme a Israele sarà il tema principale in discussione al Consiglio centrale palestinese in programma per domenica a Ramallah.

«Abu Mazen e i suoi collaboratori appaiono decisi a continuare lo scontro con gli Usa» dice al manifesto l’analista Mukreim Abu Saada di Gaza «è l’unica posizione che possono avere di fronte al passo fatto da Donald Trump». Abu Saada però non fa previsioni sulla fermezza della leadership dell’Anp: «Per ora è così, cosa accadrà in futuro nessuno onestamente può dirlo». Da parte loro gli americani sono convinti che Abu Mazen e l’Anp presto o tardi cederanno. Sulla riva del fiume in attesa che passi il cadavere del nemico siedono Jason Greenblatt e Jared Kushner, alla guida del “peace team” dell’Amministrazione. I due, riferiva il Jerusalem Post un paio di giorni fa, si preparano a presentare – ma non si sa quando – il “piano di pace americano” che, sono convinti, Abu Mazen alla fine dovrà accettare di discutere.

In realtà dietro ai proclami ci sarebbe ben poco, a parte il coinvolgimento diretto di alcuni Paesi della regione, in particolare Arabia saudita, Egitto e Giordania, con il compito di persuadere i palestinesi ad accettare un accordo al ribasso con Ramallah capitale del loro minuscolo Stato senza sovranità. Qualche giorno fa il New York Times ha diffuso un file audio in cui un comandante dell’intelligence egiziana esortava alcuni conduttori di radio e tv a promuovere l’idea di Ramallah capitale dei palestinesi. Secondo il giornalista Michael Wolff, autore dell’ormai celebre libro “Fire and Fury: Inside the Trump White House”, il piano americano per i palestinesi prevederebbe la consegna della Cisgiordania alla Giordania e di Gaza all’Egitto.
Intanto ieri sera un colono israeliano è morto in ospedale dopo essere stato ferito da colpi d’arma da fuoco sparati da un’auto in corsa, all’incrocio dell’insediamento Gilad Farm, nel distretto di Nablus. In risposta il ministro della difesa Lieberman ha ordinato all’esercito di catturare i palestinesi resposnabili dell’attacco e di adottare “misure eccezionali”.