Benyamin Netanyahu ieri si è detto contento. Secondo il premier israeliano, con il discorso di domenica scorsa a Ramallah il presidente palestinese Abu Mazen avrebbe «gettato la maschera» e confermato quanto lui va dicendo da anni. «Alla radice del conflitto fra noi e i palestinesi c’è la loro costante contrarietà a riconoscere lo Stato ebraico, entro qualsiasi confine», ha scritto ieri su Facebook. E un duro attacco è giunto anche dal presidente israeliano Reuven Rivlin che, di fatto, ha accusato Abu Mazen di antisemitismo. Il leader palestinese è stato preso di mira per la frase, “Yehreb Beitak”, con la quale si era rivolto domenica a Donald Trump perché ha riconosciuto unilateralmente Gerusalemme capitale di Israele. Tradotta letteralmente dall’arabo significa: «Che la tua casa possa essere demolita». Nell’arabo palestinese colloquiale invece è usata genericamente per mandare qualcuno a quel paese.

Polemiche e «vaffa» hanno offuscato sui media i lavori del Consiglio Centrale dell’Olp che si è riunito a Ramallah senza gli islamisti di Hamas e Jihad che hanno invano chiesto ad Abu Mazen di convocare la seduta non a Ramallah ma all’estero, per aggirare le restrizioni israeliane. Il presidente è stato duro come mai si era sentito prima. «L’accordo di Oslo è finito, Israele gli ha messo fine» ha detto Abu Mazen aggiungendo che ogni ulteriore negoziato si dovrà svolgere sotto un’egida internazionale e che i palestinesi non accetteranno mai l'”Accordo del secolo”, il presunto piano di pace Usa per il Medio Oriente. Da Trump, ha sottolineato, i palestinesi hanno ricevuto «uno schiaffo in faccia». Mahmoud al Aloul, vicepresidente del partito Fatah, ha poi comunicato che il Comitato centrale dell’Olp prenderà decisioni «critiche» e fra queste forse anche la revoca del riconoscimento palestinese di Israele. Altri assicurano che la leadership dell’Olp si rivolgerà di nuovo al Consiglio di Sicurezza dell’Onu per chiedere il riconoscimento dello Stato di Palestina «sotto occupazione israeliana», sapendo però che incontrerà il veto Usa. Fermezza, a parole, che si scontra con un interrogativo: il presidente palestinese ha una strategia alternativa al processo di Oslo che ha dichiarato morto dopo esserne stato per anni un protagonista e sostenitore? Non pare proprio.

«Domenica Abu Mazen ha solo sventolato la bandiera palestinese», ci diceva ieri il giornalista Nasser Atta. I palestinesi, ha spiegato, «sono stanchi di parole che non aprono a nuove prospettive politiche. Chiedono atti concreti, la rottura della collaborazione di sicurezza con Israele. Molti vorrebbero stringere alleanze alla luce degli sviluppi regionali che vedono l’Arabia saudita e le monarchie del Golfo più vicine a Israele e agli Stati Uniti». Solo due cose fanno paura a Netanyahu e ai suoi ministri scriveva ieri un giornale israeliano, Yediot Ahronot: lo scioglimento dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) e la fine dichiarata della soluzione a “Due Stati” (Israele e un mini Stato di Palestina senza sovranità reale). Israele non vuole la dissoluzione dell’Anp che si prende cura al suo posto di milioni di palestinesi sotto occupazione e perché mantiene una stretta cooperazione di sicurezza con i suoi servizi. La morte dei “Due Stati”, di fatto già avvenuta da anni, vorrebbe dire procedere verso lo Stato unico, per palestinesi ed ebrei in condizione di uguaglianza. Uno sbocco che spaventa i leader israeliani che insistono per uno Stato di Israele sionista e a larghissima maggioranza ebraica, con i palestinesi dei Territori occupati chiusi nelle loro città “autonome” in Cisgiordania o a Gaza. Pochi però credono che Abu Mazen sia intenzionato a rovesciare il tavolo e rendere reali le paure del governo israeliano.

Ieri una nuova vittima palestinese. Ahmed Salim, 24 anni, è stato ucciso da soldati israeliani durante proteste nel villaggio di Jayous (Qalqilya). I giudici militari hanno rinviato a domani la decisione sulla richiesta di scarcerazione su cauzione di Ahed Tamimi, la ragazzina palestinese detenuta da un mese per aver schiaffeggiato due soldati.