Se le elezioni amministrative dell’8 ottobre in Cisgiordania e Gaza andranno bene e non ci saranno disordini, i palestinesi tra due anni potrebbero tornare alle urne per eleggere il presidente. È questa la mezza promessa che alcuni membri dell’Autorità nazionale palestinese vanno facendo in giro da qualche giorno. Cosa intendano per «se andranno bene» non è chiaro. Qualcuno sussurra che le ipotetiche presidenziali del 2018 si terranno solo se tra un mese non uscirà vincitore dalle urne l’esercito di candidati “indipendenti” che il movimento islamico Hamas ha presentato sfidando Fatah, il partito del presidente Abu Mazen e spina dorsale dell’Anp. La successione di Abu Mazen, 81 anni, è un argomento centrale nel discorso politico palestinese. E anche i governi occidentali e di alcuni Paesi arabi si danno da fare per garantire un passaggio di consegne indolore ai vertici dell’Anp e l’elezione (o la nomina) di un nuovo presidente gradito prima a Israele e poi ai palestinesi.

I più intraprendenti sono in questo periodo gli egiziani, impegnati a favorire non la riconciliazione tra Fatah e Hamas bensì quella all’interno del partito di Abu Mazen. Fatah è tormentato da una lunga crisi interna che lo rende debole e incapace di mettere a punto una strategia politica in grado di contrastare tra i palestinesi l’appeal di Hamas che abbina alla militanza politica (a Gaza anche armata) un efficiente sistema di assistenza alle fasce più deboli della popolazione. Per il Cairo la soluzione di questa crisi, necessaria per decidere la presidenza futura dell’Anp, passa inevitabilmente per il riavvicinamento tra Abu Mazen e il suo rivale Mohammed Dahlan, espulso da Fatah nel 2011. Chi avuto modo di seguire le vicende palestinesi dopo gli accordi di Oslo del 1993, sa che Dahlan è stato per molti anni uno dei personaggi di spicco dell’Anp, con l’incarico di capo della sicurezza preventiva nella Striscia di Gaza. Ambizioso, stimato in Israele e negli Stati Uniti, Dahlan ha usato la sua influenza e i rapporti con i servizi segreti mediorientali e occidentali per accrescere il suo potere e la sua ricchezza personale. Fino allo scontro con Abu Mazen, cominciato dopo la “perdita” di Gaza nel 2007 a vantaggio di Hamas, una debacle attribuita dai vertici di Fatah ad “errori” di Dahlan, poi accusato anche di scandali finanziari e di corruzione. L’ex uomo forte di Fatah non si è certo fatto prendere dallo sconforto. In questi cinque anni, trascorsi soprattutto a Dubai, ha stretto i legami con le monarchie del Golfo e rilanciato su basi ancora più forti quelli con l’Egitto, in particolare dopo il golpe militare del 2013 al Cairo che ha abbattuto governo e presidenza dei Fratelli Musulmani. E ha sostenuto generosamente, grazie ai dollari degli emiri, i suoi sostenitori (migliaia) in Cisgiordania e a Gaza.

L’Egitto e, in misura minore, la Giordania, l’Arabia Saudita e gli Emirati ora premono su Abu Mazen. Insistono per la riconciliazione dentro Fatah. Abu Mazen, su sollecitazione di una parte del suo partito, ha già ammorbidito la sua posizione permettendo a diversi militanti di Fatah ritenuti vicini a Dahlan di candidarsi alle elezioni municipali. Il rivale ha ricambiato evitando la presentazione di liste alternative che avrebbero disperso i voti in teoria destinati a Fatah e favorito le candidature di Hamas. Passaggi avvenuti dietro le quinte ma che hanno trovato conferma in alcune dichiarazioni «sull’unità dei palestinesi» fatte nei giorni scorsi dal governo dell’Anp e dai vertici di Fatah. Così sono riemersi dall’oblio ex esponenti dei servizi di sicurezza palestinesi e di Fatah caduti in disgrazia perché membri del cerchio magico di Dahlan, come Sufian Abu Zaideh, Majed Abu Shamaleh, Rashid Abu Shabak e Samir al Mashharawi.

Gli egiziani e gli altri Paesi arabi coinvolti pensano che Dahlan debba evitare di candidarsi alla presidenza, se e quando ci saranno le elezioni, perchè inviso a troppi palestinesi (che lo considerano un collaborazionista di Israele e della Cia). Piuttosto, grazie alla sua influenza e alle sue ottime relazioni con i servizi segreti occidentali e israeliani, dovrà diventare il garante della stabilità del successore “prescelto” di Abu Mazen, di fronte alle ambizioni espresse da diversi personaggi di Fatah che puntano alla leadership. Insomma il presidente-ombra della Palestina. La successione alla presidenza dell’Anp è parte ora anche delle lotte di potere in corso nella regione. Il Cairo cerca di sottrarre i territori palestinesi all’influenza di Qatar e Turchia, alleati dei Fratelli musulmani e del suo ramo palestinese, Hamas.