Perchè Abu Mazen non ha atteso la nuova composizione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu per presentare la risoluzione palestinese? Questo interrogativo sorto a fine anno, quando il CdS ha respinto per un solo voto la risoluzione che chiede il ritiro entro il 2017 di Israele dai Territori occupati, è riemerso tra domenica e lunedì. Quando prima il presidente dell’Anp e poi il capo dei negoziatori, Saeb Erekat, hanno affermato «ci riproveremo, presto». Abu Mazen ha parlato di una settimana al massimo. Invece Erekat, intervistato dal quotidiano israeliano Yediot Ahronot, ha indicato la fine di gennaio. Dal primo gennaio infatti sono entrati nel CdS paesi come Angola, Malaysia, Spagna e Venezuela, sostenitori aperti dell’indipendenza palestinese (Caracas in testa). E questo dovrebbe dare buone possibilità ad Abu Mazen di ottenere i 9 voti su 15 necessari per l’approvazione del risoluzione. Certo, incombe il veto degli Stati Uniti ma i palestinesi intendono riprovarci in ogni caso, anche per mettere Washington di fronte alle sue responsabilità dirette nella mancata soluzione del conflitto in Medio Oriente. Resta perciò un mistero la ragione che ha spinto Abu Mazen a presentare la risoluzione a fine 2014, pur sapendo che i due paesi africani presenti in quel momento nel CdS, Nigeria e Ruanda, non sono impermeabili alle promesse e alle pressioni di Israele e Usa (il 30 dicembre è stata la Nigeria a far mancare il nono voto decisivo alla approvazione risoluzione palestinese).

 

In casa palestinese anche per questa ragione non si arrestano le polemiche. In aperto dissenso con l’iniziativa di Abu Mazen alle Nazioni Unite sono peraltro i leader di Hamas – anche ieri, attraverso il portavoce Sami Abu Zuhri, hanno manifestato la loro opposizione ad un nuovo passo al CdS – e quei settori della società civile e della politica palestinese che contestano al presidente di aver emendato troppe volte la risoluzione. Nel tentativo inutile, aggiungono, di spingere gli Usa a rinunciare al veto, finendo per rendere vaghi punti sui quali si regge il consenso nazionale palestinese, a cominciare dal diritto al ritorno nella loro terra d’origine per i profughi. Abu Mazen comunque va avanti. «Stiamo studiando con i nostri alleati e soprattutto con la Giordania di presentare di nuovo la risoluzione, lo faremo per la terza volta o anche una quarta volta se necessario», ha assicurato.

 

Forte della protezione garantita dal veto americano, il governo Netanyahu più che le iniziative all’Onu teme la richiesta di adesione palestinese alla Corte Penale internazionale (Cpi), che dovrebbe essere accolta all’inizio di marzo. A quel punto la Palestina chiederà, almeno questo ripetono i dirigenti dell’Anp e dell’Olp, l’incriminazione di Israele per l’offensiva militare lanciata la scorsa estate contro Gaza. A differenza della risoluzione all’Onu, l’ingresso nella Cpi unisce tutti i palestinesi, Hamas e Fatah, sinistra e conservatori. La rappresaglia del governo Netanyahu non si è fatta attendere. Sabato Israele ha annunciato che non trasferirà a Ramallah 127 milioni di dollari palestinesi raccolti per conto dell’Anp con tasse e dazi doganali. Un passo che mette in ginocchio l’Anp e che Saeb Erakat ha definito un “crimine di guerra”. Subito dopo fonti israeliane hanno fatto sapere che Israele potrebbe chiedere al Congresso Usa di congelare 400 milioni di dollari che rappresentano l’aiuto annuale americano ai palestinesi (in realtà vanno in buona parte ai servizi di sicurezza che cooperano con quelli israeliani). Infatti con la legge di finanziamento, passata a dicembre e firmata da Obama, il Dipartimento di Stato può bloccare gli aiuti destinati ai palestinesi qualora questi decidano di avviare indagini autorizzate dalla Corte Penale Internazionale, allo scopo di far condannare militari israeliani per crimini di guerra. Domenica Netanyahu, aprendo la riunione settimanale del governo, ha detto che Israele non permetterà che i suoi soldati siano processati. «L’autorità nazionale palestinese – ha avvertito – ha scelto di scontrarsi con Israele e noi non staremo a guardare».

 

I palestinesi nel frattempo celebrano un piccolo successo. La Corte Suprema israeliana ha bocciato il progetto dell’Esercito di completare il Muro di separazione in Cisgiordania facendolo passare sulle terre dello storico villaggio palestinese di Battir (Betlemme), proclamato meno di un anno fa dall’Unesco patrimonio dell’umanità. «È la vittoria di tutta la Palestina», ha affermato Akram Badir del Consiglio locale di Battir. Una vittoria un po’ particolare perchè in queste ore festeggiano anche il Consiglio Regionale di Gush Etzion e il “Gush Etzion Field School”, ossia i coloni israeliani che vivono in quella zona. I settler sostengono di aver svolto un ruolo decisivo, assieme ad “Amici della Terra Medio Oriente”, nel proteggere l’ambiente naturale “in Giudea e Samaria” (la Cisgiordania occupata).