La leadership palestinese si lecca le ferite. Fa male la coltellata alle spalle ricevuta a fine anno dalla Nigeria alla quale (come il Ruanda) è bastata una telefonata del premier israeliano Netanyahu (con quali promesse?) per decidere di astenersi (una scelta peggiore persino del voto contrario) sulla risoluzione palestinese presentata al Consiglio di Sicurezza che prevede un accordo di pace entro 12 mesi e il ritiro israeliano dai Territori occupati entro il 2017. Il non-voto della Nigeria (ne servivano 9 su 15 del CdS, i favorevoli si sono fermati a 8), ha impedito l’approvazione della risoluzione e privato i palestinesi della soddisfazione di costringere gli Usa ad usare il veto. Due giorni fa era questo l’obiettivo del presidente Abu Mazen. «Gli Stati Uniti sono ancora più isolati per aver difeso le politiche israeliane», ha commentato il leader dell’Olp e dell’Anp, facendo riferimento al cambiamento che, a suo dire, sarebbe avvenuto in Europa nei confronti di Israele e dei palestinesi.

 

La realtà però è più complessa rispetto a quella descritta da Abu Mazen. Dalla bocciatura all’Onu proprio il presidente palestinese esce con le ossa rotte. Il testo definitivo della risoluzione, risultato di emendamenti e modifiche alla bozza diffusa nei giorni scorsi, aveva lasciato l’amaro in bocca a tanti in Cisgiordania e Gaza, perchè troppo vago su punti ritenuti dei principi fondamentali dai palestinesi. Altri, inoltre, rimproverano al leader di aver inutilmente inseguito gli Stati Uniti per mesi, facendo concessioni su concessioni, per poi incassare una sconfitta sicura sin dall’inizio.

 

Perciò Abu Mazen ora ha bisogno di ottenere risultati immediati e concreti, anche perchè si avvicina il decimo anniversario della sua elezione a presidente e il bilancio è magro. Certo, prima di tutto per responsabilità dell’occupante ma, spiegano le opposizioni, anche di Abu Mazen che continua a fidarsi degli Stati Uniti e della loro mediazione mentre, nei momenti cruciali, anche l’Amministrazione Obama che pure non manca di criticare Netanyahu, si schiera sempre con Israele. La firma in diretta tv della richiesta di adesione da parte della Palestina a oltre 20 convenzioni internazionali e trattati internazionali, a cominciare dall’accesso alla Corte Penale Internazionale – che teoricamente permette l’apertura di un procedimento contro Israele per crimini di guerra -, da un lato sono la reazione, annunciata, alla bocciatura della risoluzione all’Onu, e dall’altro sono il tentativo di Abu Mazen di recuperare prestigio e consensi, in vista di una scadenza di grande importanza.

 

Questo mese si aprirà a Ramallah il congresso di Fatah (l’ultimo c’è stato nel 2009) e Abu Mazen sa che le correnti dissidenti nel suo partito cercheranno di usare l’insuccesso all’Onu per fargli lo sgambetto o almeno per metterlo in difficoltà. Non è un mistero che Abu Mazen stia premendo per tenere il congresso di Fatah al più presto, per rimuovere dal Consiglio centrale e dal Consiglio rivoluzionario i sostenitori del suo “nemico”, Mohammed Dahlan, espulso dal partito per “tentato colpo di stato” ma che gode ancora di appoggi in Fatah e nei Territori occupati. Dahlan ha attaccato duramente Abu Mazen, anche sull’iniziativa all’Onu, nelle ultime settimane e poco prima di Natale migliaia di palestinesi a Gaza e centinaia a Ramallah hanno manifestato in suo sostegno. E potrebbe usare l’insuccesso della risoluzione per rilanciare la sua sfida con nuove munizioni in canna.

 

C’è inoltre il discorso della successione. Il rais viaggia verso gli 80 anni (a marzo) e vari dirigenti di Fatah lasciano intendere di avere i numeri per sostituire il “rais” alla testa del partito, dell’Olp e dell’Anp. Tra questi ci sono Jibril Rajub, Mohammed Shtayyeh, Abu Jihad al Aloul e, da fuori Fatah, Dahlan. Gli Stati Uniti gradirebbero al vertice palestinese Majd Faraj, capo dell’intelligence e garante della cooperazione di sicurezza con Israele. Buona parte della base di Fatah invece reclama che la leadership sia assegnata a Marwan Barghouti, popolare segretario in Cisgiordania di Fatah, che però dal 2002 è in carcere in Israele dove sconta una condanna a cinque ergastoli.