Il rito dei biglietti da visita è uno di quelli che puntualmente si celebrano in un viaggio di lavoro. Insieme ai lieto di incontrarla, benvenuto, fa molto caldo/freddo. I biglietti da visita finiscono dentro il portafoglio, in fondo a una borsa, tra i vestiti della valigia. Poi, quando torni e svuoti i bagagli, ecco che saltano fuori, tramite per ricostruire facce e momenti sfocati già un minuto dopo averli vissuti. I biglietti da visita di un viaggio di lavoro ad Abu Dhabi sono quelli di sales manager, sales executive, hotel manager, general manager, support manager, public relations manager… Cariche declinate in inglese e ricoperte dai ‘Non National’: definizione ricorrente nei dossier dello SCAD, il Centro Statistiche dell’Emirato.

Non National ha un significato facilissimo da comprendere. Ma ad Abu Dhabi, come negli altri Emirati, identifica tre condizioni diverse: stranieri agiati o molto agiati, stranieri che campano, stranieri a un passo dalla fame. Alla prima appartengono donne e uomini arrivati dall’Europa, dagli Stati Uniti, dall’Australia, dal Canada. Hanno tra i venticinque e i cinquant’anni, parlano l’idioma anglosassone con vari accenti, vestono impeccabilmente. Mentre raccontano lo sfarzo di un hotel, ti guidano sul green di un campo da golf, cenano con te al tavolo di un costoso ristorante dal menu libanese, esaltano meraviglie e futuro della capitale degli Emirati, trasmettono l’impressione di essere lì senza riuscire ad esserci davvero fino in fondo.

Privilegiati dai soldi, prigionieri di lusso dentro i muri di una vita troppo diversa. Se interrogati in proposito, lo negherebbero con fermezza. Nella seconda condizione si trova, ad esempio, Valeria. In un’intervista su un sito internet racconta di lei e del marito ingegnere, venuti ad Abu Dhabi inseguendo il sogno. «Tanti hanno un’idea distorta degli Emirati Arabi Uniti, terra promessa delle infinite opportunità. È vero, ma solo per alcuni purtroppo». Valeria, in Italia, faceva la consulente turistica «Un lavoro offerto qui solamente alla fascia sociale bassa, e retribuito con uno stipendio che non supera i 300 euro mensili. Ho cercato altro, ma se non si è specializzati si hanno tre scelte: accettare di essere schiavizzati, stare a casa (se il marito/moglie lavora), inventarsi qualcosa.

L’ultima opzione non è facile da realizzare, perché le leggi sono molto restrittive». L’elenco delle professioni più ricercate secondo Valeria, comprende quelle dei biglietti da visita di cui sopra. Ma esistono anche altri privilegi «Quando la richiesta di una segretaria con esperienza quinquennale è rivolta a un’emiratina (emiratini, gli abitanti degli Emirati, ndr), lo stipendio può arrivare a 4000 euro mensili. Quando invece è rivolta a una donna di nazionalità europea, scende a 1500/2000 euro». Il costo della vita richiede a un Non National di guadagnare almeno quattromila euro al mese, sempre che l’azienda, come avviene in genere nei contratti di assunzione, si faccia carico di affitto, assicurazione sanitaria per tutta la famiglia, auto e scuola per i figli. Valeria non ha dubbi «Senza uno stipendio di questa entità e senza questi benefici, vivere negli Emirati non conviene.

I prezzi degli appartamenti vanno da 20mila euro annui per un bilocale ai 30mila per un trilocale, e via salendo». Mangiare fuori è un investimento«Sei stanco di cucinarti la pizza a casa, o di mangiare quella di un Pizza Hut. Così decidi, per una volta, di andare in un ristorante italiano con pizzaiolo italiano. Quattro pezzetti di antipasti misti, due pizze e due birre, cento euro. E sto parlando di ristoranti modesti».

Terzi e ultimi, non solo in ordine di elenco, sono i migranti dall’India, dal Pakistan, dal Bangladesh, dall’Iran, dall’Afghanistan, dalla Cina, dall’Estremo Oriente. Camerieri, operai, muratori, guide turistiche, addette alle pulizie, commesse, manovali. Dormono accatastati nelle stanze che raggiungono la sera, dopo dodici, quattordici ore, di fatica. Guadagnano mediamente 250 euro al mese, e se perdono il lavoro devono trovarne subito un altro. Senza lavoro non c’è visto.

Maggio 2012, articolo sul sito ArabPress «I lavoratori di Abu Dhabi stanno continuando a lavorare tutto il giorno, nonostante il più alto picco raggiunto in questo maggio dalle temperature. La pausa obbligatoria dalle 12 alle 15 è prevista solo dal 15 giugno in poi, e non ci sono piani per anticiparla. Un nuovo indice legato al caldo – che richiede ai datori di programmare le ore di lavoro basandosi sulle condizioni atmosferiche effettive piuttosto che sul periodo dell’anno – è stato introdotto in febbraio, ma serve più tempo perché il piano sia messo a punto. Alcuni lavoratori sono già stati ricoverati a causa delle ondate di calore. ‘Tra le 12 e le 14 in questi giorni c’è un picco, e fa troppo caldo per lavorare’, dice il dottor Lalu Chacko, a capo del reparto di terapia intensiva al Lifeline Hospital. E continua: ‘Ritengo che chiunque lavori all’aria aperta dovrebbe avere una o due ore, in quella fascia oraria così calda, per riposarsi’». Che cifra rappresentano le tre categorie dei Non National rispetto al totale della popolazione? Il più grande dei sette Emirati Arabi Uniti occupa una superficie di 75mila chilometri quadri, pari all’86% dell’intero territorio. Su questa superficie, distribuita tra deserto, settecento chilometri di coste e oltre duecento isole, vivono, secondo i dati 2011, circa due milioni e centomila persone.

L’80% è costituito da Non National, e tra di loro i lavoratori che se la passano bene/benissimo o dignitosamente non superano il quattro per cento su un totale (cifre SCAD 2008 in corso di elaborazione) di 823mila. Tutti gli altri curano il parco e le piscine degli alberghi, puliscono i pavimenti delle hall, rifanno le stanze e le suites, sgobbano in cucina, trascinano i trolley, stendono l’asfalto sulle strade, lavano le vetrate di grattacieli alti decine di piani, si inerpicano come formiche lungo le impalcature dei colossi in costruzione.

Senza di loro, l’Emirato dove per primo, cinquantacinque anni fa, vennero scoperti immensi giacimenti di petrolio, non sarebbe mai divenuto la Abu Dhabi che oggi si mostra agli occhi dello straniero e, inevitabilmente, gli fa spalancare la bocca: opulenta e spettacolare, eccessiva nella bellezza come nel cattivo gusto, occidentale e osservante del Corano, proiettata verso un domani che dovrà fare i conti senza l’oro nero, ostinata nel pronunciare a ogni pie’sospinto la parola ‘Heritage’, eredità del passato. Quel passato, fino al 1958, vedeva Abu Dhabi parte di una terra abitata da tribù beduine dedite alla pastorizia e dai pescatori di perle. Agricoltura di base, allevamento dei cammelli, coltivazione della palma da dattero, pesca delle perle, costituivano le fonti di sostentamento economico.

Il dominio coloniale, iniziato nella prima metà del ’600 dai portoghesi, continuò con gli inglesi, sotto varie forme, fino al 2 dicembre 1971, data dell’indipendenza e avvio del processo di unificazione degli Emirati. Durante l’occupazione straniera, la potenza dell’Emirato di Sharjah cedette il passo ad Abu Dhabi e in seguito a Dubai. Ma quando il petrolio venne alla luce, e Abu Dhabi, quattro anni dopo, iniziò le esportazioni, non ci fu più storia. Le cifre attuali dicono che nella capitale si estrae il 90% del petrolio di tutti gli Emirati, in grado di soddisfare il 9% del fabbisogno mondiale. Il Pozzo di san Patrizio, secondo gli esperti, si esaurirà tra mezzo secolo circa. Il presidente degli UAE (United Arab Emirates), sceicco Khalifa bin Zayed Al Nahyan, sta già da tempo correndo ai ripari. Accordi economici con alcuni stati europei, USA, Brasile, Cina, Giappone. Spazio alle multinazionali dell’alimentare e dell’industria alberghiera, agli investimenti immobiliari, alle Energie Rinnovabili, al turismo. E poi una rete ferroviaria e metropolitana, l’ottimizzazione della viabilità stradale, il potenziamento della compagnia aerea nazionale Ethiad.

Abu Dhabi è una fabbrica di San Pietro là dove si prega Allah. Le gru fanno parte del paesaggio, le scavatrici raccolgono le macerie dei grattacieli anni ’80 buttati giù perché ‘roba vecchia’. Ovunque c’è un cantiere aperto, dedicato all’ennesima creatura verticale, alla nascita di un hotel da Paese delle Meraviglie o di un centro commerciale, alla creazione di un quartiere residenziale. Abu Dhabi è un Non Luogo.

Ma la definizione di Marc Augé le calza in modo anomalo. Abu Dhabi rappresenta una somma di luoghi a sé stanti, e, forse proprio per questo, è priva di quei canoni non solo occidentali che disegnano una forma urbana. Cosa definisce, qui, i confini del centro, cos’è la periferia? Dove si vanno a fare quattro passi per prendere un aperitivo o un caffè? Esiste un negozio fuori dalle Shopping Galleries? Ogni punto interrogativo riceve un no o non so. Eppure, Abu Dhabi possiede un fascino dai poteri forti. Lo esercitano, prima di tutto, i già tante volte citati grattacieli. Impossibile restare indifferenti di fronte alle vele di cemento e vetro delle Ethiad Towers, all’inganno del Capital Gate che in apparenza pende quattro volte più della Torre di Pisa, agli alveari di tende delle Al Bahr Towers. Impossibile non provare vertigine sbirciando verso il basso dal piano numero 48, l’ultimo, del Jumeirah Hotel.

I grattacieli sono ovunque, skyline se volti le spalle al mare, luci protagoniste del buio notturno che inghiotte la terra piatta e vuota intorno alla città. Gigante rosso, ma disteso sul suolo di Yas Island, è il Ferrari World: 86mila metri quadri di superficie interna, 200mila in totale, trionfo ovunque del colore di Maranello e dell’esagerazione. Tra le venti attrazioni ci sono le montagne russe più veloci del mondo, da zero a 240 chilometri all’ora in poco meno di cinque secondi; il Viaggio In Italia a bordo di una poltrona che sale a quattro metri di altezza ed “entra” nello schermo cinematografico, portandoti in volo dal Nord al Sud della nostra penisola; la Galleria Ferrari, con auto d’epoca che valgono un patrimonio e, guarda caso, sono in parte gentile prestito di un privato; gli spazi riservati ai bambini piloti per un giorno, sotto lo sguardo vigile di mamma e papà. Si sprecano, poi, i negozi consacrati al mito; i ristoranti e i bar dai nomi improbabili di Mamma Rossella, Rosticceria Modena, Espresso Rosso.

Naturale prolungamento del Ferrari World, il Circuito di Abu Dhabi: dal 2009 nuovo tempio della Formula Uno e degli interessi economici che le girano attorno. Cinque ne è il numero simbolo: 5.55 chilometri di lunghezza, gara su 55 giri, spazio per 50mila spettatori. Affacciato e sospeso sulla pista, c’è l’hotel Yas Viceroy. Lo avvolge un’immensa rete metallica bianca, un tunnel trasparente che ricorda la silhouette di un’auto da corsa mette in collegamento i due corpi della costruzione. Le stanze, nel giorno della gara, hanno prezzi inavvicinabili anche per i Non National fortunati. E visto che ogni viaggio ha i suoi momenti di riposo, gli alberghi di Abu Dhabi provati per esperienza meritano racconto.

La chiave elettronica, oltre ad aprire la porta, serve ad attivare lampade e lampadari. Ciak, si gira. Le immagini del film inquadrano un corridoio che immette nel soggiorno con divani, poltrone, televisore extralarge, scrivania, veranda. La camera da letto ha un talamo a tre piazze, arredi techno o in stile locale, un secondo televisore, l’angolo scrittura, l’armadio a parete, il telefono computerizzato con schermo led, la poltrona relax, quadri e decori sparsi. Il bagno somiglia a uno stabilimento termale.

Le sue dimensioni partono da una trentina di metri quadri nei casi più modesti, sempre e comunque suddivisi tra spazio doccia, vasca idromassaggio, zona lavabo e dintorni. Inutile dire che asciugamani, accappatoi, corredo di schiume e saponi, si sprecano per quantità e qualità. Le luci, comandate da pannelli incomprensibili, si spengono, si riaccendono, non si spengono mai. Lo stesso vale per le tende elettriche e l’aria condizionata. Le hall sono il palcoscenico dei ricchi di Abu Dhabi. Chiuse in enormi gusci di vetro, progettate guardando al Ventunesimo secolo o a due secoli prima, accolgono il viavai degli uomini vestiti con la kandoura, il lungo abito bianco in lana e cotone, e delle donne che indossano la tunica nera chiamata abayah e sulla testa portano la shayla, velo dello stesso colore. L’omaggio alla tradizione non impedisce a entrambi i sessi l’uso ininterrotto di cellulari e i pad.

A volte, là dove si può, gli uomini ‘non allineati’ sorseggiano un bicchiere di vino o una birra. Le donne camminano su tacchi altissimi, indossano abayah di certo non comprate al mercato, si truccano con eleganza, ripongono le chiavi dell’auto in una borsa griffata.

Della Grande Moschea dedicata a Sheikh Zayed Bin Sultan Al Nahyan, padre fondatore degli UAE, vale dare soltanto nude e significative cifre. Dalla prima pietra posata nel 1990 è nato un luogo di preghiera di 22.142 metri quadri, pari a cinque campi di calcio, in grado di ospitare 40.960 fedeli. Le cupole sono 82, quella principale ha un diametro esterno di 33 metri ed è alta 70. I 17mila metri quadri del cortile interno sono rivestiti di mosaici e marmi policromi; il più grande dei sette lampadari in oro 24 carati e cristalli Swarovski misura 10 metri di diametro, 15 in altezza e pesa 9 tonnellate; 7119 metri quadri, 35 tonnellate di lana e cotone, due milioni e 268mila nodi, sono le cifre del tappeto della moschea, tessuto da 1200 artigiani iraniani. Saadyat Island si traduce con ‘Isola della felicità’.

È su questa porzione di terraferma che poggiano gli ambiziosi progetti grazie ai quali Abu Dhabi e gli Emirati avranno, entro il 2017, il loro Distretto Culturale. Negli spazi del Manarat Al Saadyat, una sorta di museo dei musei, ai visitatori viene spiegato, attraverso pannelli, rendering, filmati, fotografie, quanto il governo sta facendo e farà. In grande, ovviamente. Sui 27 chilometri quadri dell’isola stanno sorgendo il Louvre di Abu Dhabi, termine lavori 2015, firmato dall’architetto Jean Nouvel; stesso discorso per il Guggenheim, opera di Frank Gehry, completamento entro il 2017; per lo Sheikh Zayed National Museum, progettato dalla Foster & Partners; per il Centro di Arti dello spettacolo ideato da Zaha Hadid e il Museo Marittimo. La felicità dell’isola sarà tale anche per le imprese cui è stato concesso di costruire luoghi di divertimento, resort, campi da golf, hotel.

Tra musei e amenità varie, la spesa complessiva ammonterà a 29 miliardi di euro, più di uno per chilometro quadrato. Ma restiamo ai musei, 64mila metri quadri in tutto. Il percorso del Manarat mostra il Louvre, medusa che, letteralmente, galleggia sul mare; il Guggenheim, mastodontico gioco di costruzioni i cui pezzi sono accatastati l’uno sull’altro; lo Zayed, cinque vele trasparenti conficcate dentro una collina. Meravigliosi. Ma, contraddizione in un Paese dove esistono i distributori automatici di aurei lingotti, non è tutto oro quel che luccica.

In un articolo del 12 aprile 2103, il quotidiano francese Libération titola ‘Louvre Abu Dhabi, les mille et un ennuis’, giocando sulle mille et une nuit del celebre libro e la parola ennuis, problemi. In base agli accordi siglati nel 2007, Parigi si era impegnata con Abu Dhabi a prestare 750 opere in dieci anni, per quindici a organizzare quattro mostre l’anno, e a dare la propria consulenza nella creazione di una collezione di proprietà. La controparte, cioè i sette Emirati, avrebbe versato 700 milioni di euro in un trentennio. Nel 2011, Abu Dhabi ha interrotto i pagamenti trimestrali. La gara di appalto per la costruzione dell’edificio è stata affidata a un’impresa spagnola soltanto nel gennaio 2012, e il museo, secondo Libération, aprirà non prima del 2016. A ciò si è aggiunta la voce di Human Rights Watch.

Secondo l’organizzazione, le società di selezione bengalesi e indiane hanno attirato i lavoratori con la promessa di alti salari. Arrivati nell’Emirato, i lavoratori hanno subito il sequestro del passaporto e sono, di fatto, prigionieri. Agitate le acque di Saadyat anche sul fronte del Guggenheim. Centotrenta artisti arabi di risonanza mondiale hanno dichiarato che non esporranno lo loro opere se non saranno garantite agli operai stranieri condizioni di lavoro e di vita dignitose. Aereoporto di Abu Dhabi, fine del viaggio di lavoro, in fila per l’ultimo controllo. Davanti a te, un ragazzo dalla pelle scura. Mostra il passaporto.

Il funzionario gli chiede anche la carta di identità, la guarda, prende il telefono. Arriva un altro funzionario, armato di lente. Esamina a lungo i due documenti, ordina al ragazzo di farsi da parte. Tu sei il primo dopo di lui. Lo sguardo del funzionario al passaporto dura un secondo. Il ragazzo è sempre lì. La paura incollata sugli occhi. Sei ore di aereo, poi un bus da Milano alla tua città. Sali a bordo. C’è anche il ragazzo. All’arrivo qualcuno lo aspetta. Si abbracciano e si incamminano. Non National che mai, nella loro vita, potranno darti un biglietto da visita.

FALCON HOSPITAL . Diretto dalla dottoressa Margit Gabriele Muller, il Falcon Hospital è una costruzione appartata in mezzo al verde, a una mezz’ora d’auto dal centro di Abu Dhabi. Il falcone e la falconeria rappresentano l’unica tradizione, l’unico Heritage, eredità del passato, ancora viva negli Emirati. Gli splendidi animali provengono da varie parti del mondo, Europa compresa. Adorati dai loro padroni, non è raro vederli tra gli ospiti delle hall degli alberghi, portati in giro su una mano opportunamente protetta da un guanto di cuoio. Oppure passeggeri in business class, a bordo di un volo intercontinentale cui hanno accesso grazie al Falcon Passport, rilasciato dalle autorità degli UAE. L’ospedale di Margit è perfettamente attrezzato per prendersi cura dei preziosi bipedi, che, incappucciati, attendono il loro turno su speciali trespoli nella sala d’aspetto. Gli interventi vanno dalla semplice ma periodicamente necessaria pedicure alla ricostruzione delle penne, fino a operazioni chirurgiche di varia complessità. La passione della dottoressa per il suo lavoro le è valsa numerosi premi e riconoscimenti internazionali, e l’Hospital è un punto di riferimento per i suoi colleghi di mezzo mondo. Il giro turistico guidato permette di vivere un paio d’ore tra i pazienti, in senso medico, rapaci; vedere come vengono curati, avvicinare gli esemplari che necessitano di un periodo di degenza post operatoria; visitare i due piccoli musei in tema. Chi volesse provare l’esperienza, seppur in modo virtuale, vada su falconhospital.com