Come spettatore detesto le forme d’arte (che si tratti di cinema teatro fotografia pittura istallazione videoarte) in cui mi sento vilipesa, derisa, non rispettata come essere umano: quando la finzione è talmente sfacciata che mi fa capire che l’artista mi considera talmente cretina da crederci.

Come regista pratico una ricerca visiva in cui metto lo spettatore al centro di qualcosa di bello che ho voglia di condividere con lui, rispettandolo, amandolo, valutandolo per quello che è: partecipe passivo della mia visione ma pur sempre attivo mentalmente e libero di fare le sue connessioni, di attivare le sue proiezioni, di smuovere i suoi ricordi le sue nostalgie i suoi rimpianti. Da anni gira su internet il video della performance di Marina Abramovich The artist is present svoltasi al Moma nel 2010.

L’artista siede su una sedia di legno davanti a un tavolino del medesimo materiale oltre il quale è posizionata un’altra sedia di identica fattura. Per sette ore al giorno (per due mesi e mezzo circa) la donna guarderà per alcuni minuti chiunque si siederà di fronte a lei. Ogni uomo, ogni donna, ogni bambino, ogni anziano che avrà il coraggio di entrare a far parte del gioco e mettersi in relazione con lei verrà ripagato da un contatto visivo potente, irradiante, carico. Marina tiene gli occhi bassi tra una persona e l’altra, le mani posate sul grembo rosso fuoco, strega delle favole dal lungo strascico. Alza lo sguardo e lo vede: sorpresa ma subito felice. Ulay china il capo ai lati come quando gli indiani dicono «accià, accià» che anche se sembra un gesto di diniego invece dicono di sì. Non si rivedono da quando si sono detti addio (The lovers, 1988), dopo 12 anni di relazione, a metà della Muraglia Cinese, dopo 90 giorni di cammino e aver percorso 2.500 chilometri ognuno.

Ambedue ingoiano, sospirano, soffiano via la vita insieme, il sesso, la gelosia, la passione, l’ardore, torna tutto a galla come un rigurgito di latte materno: uguali, mani sotto il tavolo, nero e rosso, yin e yang, così complementari che paiono finti. Marina piange, trafitta nella sua imperturbabilità dalla potenza della vita stessa (e qui attacca l’orrida musica di commento al video che vuole commuovere con inutili istanze ricattatorie). Poi trasgredisce le sue stesse regole, allunga le mani sul tavolo e le allaccia a quelle dell’ex amante: lui sorride, non esita, si concede all’allaccio di dita. I fotografi fotografano, gli operatori riprendono, flash, mormorii, scatta l’applauso. Sono bellissimi. Abramovich è finalmente tra i terrestri, ha smesso la maschera di aliena scesa sulla terra, quel viso immobile modificato dalla chirurgia o dal botox (non so riconoscere) che si pietrifica per giorni in un’impresa innocua e significante, l’incontro con l’altro. Che sia vero o finto, mistificato o sincero, il momento è intenso.

Cos’è, voyeurismo? Perché questo spettacolo accende così tante lampadine dentro di noi? Quando si tratta di arte e quando del Grande Fratello? Dove comincia il ricatto «piangi con me ridi con me godi con me»? Quanto questo falsato orgasmo simultaneo accenderà le orecchie e le penne dei giornalisti riguardo il favore con cui è stata acclamata la performance? Io non ci sto. Però non ero presente. Purtroppo o per fortuna chissà.
(E comunque, sempre, traslando Gertrude Stein: un ex è un ex è un ex è un ex…)

Fabianasargentini@alice.it