Salito lo scalone che porta al primo piano di Palazzo Strozzi Marina Abramovic si presenta con una delle sue performance più celebri. È Impoderabilia, realizzata nel 1977 con il compagno di allora, l’artista tedesco Ulay. Lei e lui si erano messi nudi sulla porta d’ingresso del Museo Comunale d’arte di Bologna, in modo che chi voleva entrare fosse costretto a passare tra i loro corpi. «Partimmo da un’idea molto semplice», scrive Marina in Attraversare i muri (la sua autobiografia pubblicata in Italia da Bompiani). «Se non ci fossero artisti, non ci sarebbero musei. Di qui decidemmo di fare un gesto poetico: gli artisti sarebbero diventati letteralmente la porta del museo». Una motivazione irreprensibile per lucidità e audacia. L’autorità pubblica intervenne a sospendere la performance: dalla «porta» erano passate 350 persone.
Oggi è difficile valutare quante persone passeranno dalla «porta» riproposta per la mostra di Palazzo Strozzi (Marina Abramovic, The Cleaner, a cura di Arturo Galansino, fino al 20 gennaio). In occasione della «re-performance», che vede in azione perfomer «figuranti» in luogo di Marina e Ulay, sono stati infatti lasciati aperti due larghi varchi laterali da cui logicamente passa gran parte del pubblico. La sensazione è di uno svuotamento. La porta, che era un passaggio potentemente costrittivo, si trasforma concettualmente in una vetrina, che fa scattare tentazioni di voyeurismo. Quanto è maggiore la forza e la fedeltà del video di 50 minuti che documenta la performance bolognese in quella stessa sala!
L’inizio della grande mostra fiorentina è indicativo di un equivoco che si trascina poi anche nel seguito del percorso: come si documenta una performance? Scrive Lena Essling, curatrice del Moderna Museet di Stoccolma, nel saggio in catalogo, che la performance «esiste nel momento; come forma d’arte ha poco a che vedere con l’idea di preservare, collezionare, vendere». Tutt’al più «ciò che è stato catturato su pellicola o in fotografie mantiene lo status di opera d’arte, come per un’intesa tra artista e pubblico». Il problema è aperto, ma a Palazzo Strozzi la sensazione è che anziché elaborare risposte si sia creata confusione di piani.
Il percorso della mostra prende avvio in realtà dagli spazi interrati della Strozzina. Lì ci si misura con gli inizi di Abramovic nella Belgrado di Tito: anche per la natura degli spazi, l’allestimento è più serrato e più documentaristico. È la stagione delle sperimentazioni estreme sul proprio corpo, che nelle immagini in bianco e nero ci vengono restituite in tutta la loro epicità. Marina si mostra capace di un oltranzismo che può sembrare dettato da una volontà autodistruttiva e che invece si risolve sempre in un ampliamento delle proprie capacità. È un’Abramovic che più accetta percorsi di annichilimento e più ritroviamo uscirsene forte di un’energia libertaria, sia fisica che intellettuale.
La performance del 1975 Art Must Be Beautiful. Artist Must Be Beautiful, in cui per 23 minuti si pettina con una furia quasi sanguinosa, è metafora incalzante e potente di un’idea dell’arte come esperienza che cresce sul corpo stesso dell’artista. Ogni intercapedine viene eliminata e il gesto di Marina tracima dal grande schermo sul quale la performance viene proiettata nella sua versione unica e originale (venne realizzata al Charlettonborg di Copenhagen) per saturare l’ambiente in cui ci troviamo.
Si resta invece un po’ interdetti davanti all’installazione che rievoca una delle performance più cruente di Abramovic, Lips of Thomas (Innsbruck, 1975): il riallestimento della scena, con un palco bianco e la grande croce di ghiaccio, replica di quella sulla quale si era stesa dopo essersi frustata e incisa una stella sul ventre, è qualcosa di dissonante, di troppo accuratamente scenografico rispetto all’insostenibile estremismo dell’azione.
È il primo segnale di quel terreno indistinto e un po’ nebuloso in cui la mostra si impaluda al piano nobile, tra le grandi sale di Palazzo Strozzi. Per stare a una parola molto cara ad Abramovic, non si capisce quale sia il metodo che fa da criterio alla riproposizione delle proprie performance. In assenza di un metodo il rischio è quello di una banalizzazione, di una riduzione aneddotica di tante esperienze diventate quasi da antologia. Per un’artista che, soprattutto negli ultimi anni, ha riposto nella qualità del rapporto con il pubblico il principale riscontro del proprio agire artistico, la questione non è di secondo piano. «Di recente vado dicendo che il pubblico è la mia opera», confessa nella bella intervista in catalogo con Adrian Heathfield. In un altro punto sostiene anche che in un’opera «il processo è più importante del risultato». Tuttavia quello a cui si assiste in alcuni punti cruciali della mostra è proprio una svalutazione del «processo», ridotto a dinamica generica e alla fine un po’ sconclusionata.
È quello che accade ad esempio nella riproposizione delle performance che hanno fatto la storia e consacrato Marina sul palcoscenico globale, come la celebre Artist is present realizzata per un totale di 673 ore al MoMA nel 2010. Il video relativo è presentato in un allestimento al cui centro c’è il celebre tavolino-feticcio: in realtà, come si evince con precisione dall’elenco delle opere in mostra, l’opera è solo il video, mentre tutto il resto è un contorno scenografico, che però finisce con il ridurre la performance al suo set, dove le persone si siedono, in una rievocazione caricaturale dell’evento.
Eppure la mostra vive momenti alti, come la sala dove vengono proiettati una serie di video di performance, tra le quali Stromboli (2002) e Levitation of Saint Therese (2009). Quest’ultima in particolare trova un affascinante corrispettivo visivo nella re-performance di Luminosity (1997), realizzata quattro volte alla settimana a orari prestabiliti, in una stanzetta contigua. Nel video Marina vibra, a braccia e gambe divaricate, lievitando nello spazio di una grande cucina spagnola; nella re-performance, invece, una sua alter ego si sostiene nel vuoto avendo solo un sellino messo sotto il pube e stando ugualmente a braccia e gambe aperte. Leggerezza contro gravità, estasi contro brutale sforzo…
Ci si chiede perché la mostra non potesse attenersi tutta a questo standard. Forse la risposta sta nella parabola della stessa Abramovic, che si sente investita da una funzione quasi salvifica nei confronti delle persone per cui ha voluto allargare (non senza un impeto di generosità) le maglie. aggregando la più grande comunità possibile attorno al proprio lavoro. Ma così facendo non ha certamente reso un grande servizio a se stessa.