Ci sono scrittori le cui opere hanno prodotto in noi debiti di gratitudine per le storie che ci hanno regalato, per le tecniche narrative di cui ci hanno reso partecipi, per le invenzioni linguistiche con le quali ci hanno stupefatto: Abraham Yehoshua appartiene a questa specie, avendoci consegnato alcuni grandi romanzi, di cui Il signor Mani è, e resterà – a suo stesso dire – un esempio insuperato. Se dal punto di vista della imbastitura delle sue trame quell’esercizio di costruzione di un dialogo a una sola voce è un esperimento isolato, per quanto riguarda altri elementi attinti in parte alla sua biografia in altra parte alla necessità di vivere in prima persona esperienze vicarie di una realtà non altrimenti esperibile tornano in quasi tutti i suoi romanzi.

Torna, per esempio, la presenza di uomini di legge, una professione che Yehoshua avrebbe voluto esercitare prima ancora di scoprirsi scrittore, e che trovò i suoi estremi rappresentativi in quella meravigliosa fiaba titolata Viaggio alla fine del millennio, dove il tema della disputa riguarda i codici di due filoni diversi dell’ebraismo (religione non subordinata a alcuna autorità centrale) opponendo i ricchi sefarditi, aperti ai rapporti con l’ambiente circostante, alla rigida minoranza ashkenazita del nord, che riesce tuttavia a far prevalere le proprie regole.

Più dediti a affari mondani, i discendenti in linea paterna della famiglia di Rachele Luzzatto, La figlia unica protagonista dell’ultimo romanzo di Yehoshua (tradotto da Alessandra Shomroni per Einaudi, pp.168, € 18,00) sono anche loro avvocati: di ampie vedute il nonno, di più ristretti orizzonti il padre, che nega alla ragazzina dodicenne di accettare il ruolo della Madonna nella recita di Natale della sua scuola. Da sempre militante per lo schieramento morale dei suoi personaggi, Yehoshua nei suoi romanzi si è preoccupato via via meno di rendere esplicito il proprio giudizio: qui, condanna la pochezza di vedute del padre, ma lo restituisce al ruolo della vittima, assegnandogli una malattia potenzialmente mortale, e introducendo così un altro tema a lui caro, quello della vulnerabilità fisica, al tempo stesso riverbero della propria salute compromessa e ricorrenza della produzione romanzesca più tarda.

Al nonno di Rachele, figura della saggezza, spetta una apertura di orizzonti che non si limita alla religione: racconta alla nipote come durante la guerra gli toccò fingersi prete per sfuggire alle deportazioni e le spiega come la gratitudine che ancora sente per la famiglia cattolica dalla quale trovò rifugio si sia convertita, nel figlio, in una minaccia di contaminazione.

Quanto alla ragazzina, la sua presenza sulla scena è tutt’altro che accattivante: si esprime come una giudiziosa, e dunque antipatica, piccola pedante, animata dalle peggiori intenzioni. A chi le prefigura una carriera da avvocato, come quella del padre e del nonno, risponde: «Io sarò giudice, non libererò nessuno solo per via di un bel discorso».

Via via più esili, le trame di Yehoshua sembrano rivelare negli anni la loro motivazione a funzionare da impalcatura per l’espressione di idee relative alla giustizia su questa terra piuttosto che al debito verso i regni della finzione; e, infatti, si accentua anche in questo romanzo ambientato nella molto amata Italia la propensione dello scrittore israeliano a istituire nessi causali assai stretti e spesso resi dalla traduttrice italiana con una sequenza di «siccome» e di «poiché» e, all’occorrenza, di «perché non dovrebbe» a significare che da una determinata azione non può se non derivarne una seconda coerente.

Durante le vacanze di Natale in cui la vicenda della Figlia unica si iscrive, Riccardo Luzzatto – il padre di Rachele – inforca la sua motocicletta per quello che sarà con ogni probabilità il suo ultimo viaggio e va alla ricerca di chi potrà svelargli il «come mai» della azione salvifica cui deve la sua esistenza: sua madre, allora incinta, venne accolta mentre fuggiva, durante la guerra, da un medico cattolico. Trovato il figlio di colui che, al tempo, fu responsabile di quella azione generosa, Yehoshua ce la restituisce come una mera questione di do ut des, perché l’opportunismo – ci ricorda implicitamente – fa parte della condizione umana, e le sue manchevolezze meritano comprensione.