La Repubblica d’Irlanda e l’Irlanda del Nord, divise come sono da un confine ancora per poco invisibile, quando si tratta del diritto delle donne ad abortire, si presentano perfettamente unite e coese. Tuttavia, se a Sud si terrà domani il referendum per l’abrogazione dell’ottavo emendamento al fine di consentire, anzi obbligare, governo e parlamento a legiferare su questa materia estremamente spinosa, la discussione se estendere o meno al Nord l’Abortion Act in vigore in Gran Bretagna appare ancora in alto mare.

A Belfast e dintorni, infatti, l’interruzione di gravidanza è consentita soltanto se a rischio sia la vita della donna, o in caso di pericoli per la sua salute fisica e mentale. In Inghilterra, Galles e Scozia, la legislazione sull’aborto risale al 1967, ma per riserve principalmente di tipo religioso, non è mai stata recepita dal parlamento nordirlandese.

Come nella Repubblica, anche al Nord è pratica comune quella di attraversare il canale di San Giorgio per interrompere gravidanze indesiderate. Ma una volta approdate, le cittadine nordirlandesi non hanno gli stessi diritti delle compatriote britanniche, in quanto per loro i costi dell’aborto non sono sostenuti dal sistema sanitario di stato. Il che ha ovvie ricadute sociali anche in termini di maggiore impatto e disagio per le classi più povere.

Sebbene sin dal 2010 il Parlamento di Stormont, Belfast, abbia ricevuto, nell’ambito della devolution, il mandato di legiferare in materia, solo dal partito dei Verdi è giunto un appoggio totale ad applicare le leggi vigenti nel Regno Unito. Molto più ambigue sono parse le posizioni dei partiti principali. Se da un lato è scontata l’ostinata contrarietà all’aborto della destra unionista, più opportunista è sembrato negli anni l’atteggiamento di Sinn Féin. Il partito repubblicano si diceva restio, fino a poco tempo fa – e sempre per rispetto dei legami con una comunità che a torto o a ragione si identifica con una precisa confessione religiosa, quella cattolica – a dare direttive chiare al proprio elettorato.

Le cose però stanno cambiando velocemente. Ne è dimostrazione l’approccio molto meno rigido a riguardo da parte di Mary Lou MacDonald, la neo presidente del partito, succeduta allo storico leader Gerry Adams. La campagna a favore del Sì che sta portando avanti McDonald, da un lato ha fatto emergere alcuni contrasti interni a Sinn Féin tra tradizionalisti e progressisti, dall’altro ha portato il tema alla ribalta dentro il partito.

Ma se è vero che dei 23 deputati di Sinn Féin al parlamento di Dublino, sono 21 quelli a favore dell’abrogazione dell’ottavo emendamento, alla domanda ben più complessa riguardante la proposta di legalizzare l’aborto con una richiesta che pervenga entro la dodicesima settimana, a dichiararsi favorevoli sono soltanto in 8 (tra cui McDonald), mentre a non voler palesare il proprio intento sono in 13 (tra cui Adams). Due deputati sono invece contrari a entrambe le istanze.

I mutati equilibri fanno pensare i più maligni tra i commentatori politici irlandesi che Sinn Féin stia ponendo le basi per un accordo con le forze governative, e questo all’insegna di una strategia che persegue una maggiore centralità istituzionale mirata – ma questa è da sempre anche la strategia di Adams – ad andare al governo sia a Sud che a Nord.

Intanto, il deficit democratico in Irlanda del Nord continua, con lo stallo in cui si trova da molti mesi il parlamento, con l’assenza da oramai quasi un anno e mezzo di un governo misto, e con i negoziati sul confine tra Nord e Sud arenati nella più ampia palude dell’implementazione del Brexit. Chissà che almeno su un’altra frontiera, quella dei diritti delle donne, non sia per una volta la Repubblica a mandare segnali di progresso e libertari, a un Nord sempre più diviso e arroccato su posizioni di inconciliabile mancanza di dialogo.