C’era una volta, non tanto tempo fa, la Spagna dei diritti sociali. Poi, nel novembre del 2011, i popolari di Mariano Rajoy vinsero le elezioni e da allora il paese ha fatto rotta verso destra a vele spiegate. Una destra profonda, reazionaria, ultraconservatrice, che sta trasfigurando, grazie a una schiacciante maggioranza parlamentare, il tessuto sociale spagnolo più profondamente di quanto non stia facendo la crisi economica.
L’assistenza sanitaria universale non esiste più; i diritti dei lavoratori sono passati attraverso il tritacarne dell’ultima riforma; il matrimonio omosessuale è stato attaccato e salvato solo dalla Corte costituzionale; le borse di studio decimate. Tutte misure che marcano un netto cammino ideologico costellato di reverenze alla Chiesa cattolica (che benedice e sorveglia l’operato del governo) e alla componente più oscurantista del partito e dell’elettorato.

Al momento non è stata ancora toccata la progressista legge sull’aborto, ma è questione di settimane. Già a fine ottobre – lo ha dichiarato il ministro di Giustizia Alberto Ruiz-Gallardón – la normativa vigente introdotta dai socialisti nel 2010 verrà rottamata e sostituita da una legge (nel cassetto del ministro da un anno), che darà un colpo di spugna al diritto di scelta delle donne e consentirà di interrompere la gravidanza solo in tre casi specifici: stupro, rischio per la salute della madre e malformazione del feto. Come nell’85, anno in cui, con le medesime restrizioni riproposte trent’anni dopo da Gallardón, l’aborto veniva depenalizzato in Spagna.

«Io a volte devo guardare il calendario per sapere se il tempo scorre in avanti o all’indietro». Non si capacita il dottor Diego Fernández Álvarez, direttore della clinica Dator Médica, il primo centro a praticare aborti a Madrid dopo la legalizzazione dell’85. «La legge attuale (che consente l’interruzione di gravidanza senza giustificazioni entro la quattordicesima settimana, ndr) è una buona legge, che allinea la Spagna ai paesi più laici e avanzati – spiega il dottor Fernández -. Ma, soprattutto, è una legge che conferisce alla donna autonomia di scelta in merito a una questione sulla quale è giusto decida solo ed esclusivamente lei». E in effetti questo è il punto cruciale.

La legge di Gallardón, annichilisce la volontà della madre, le sottrae il potere decisionale riducendola, de facto e de iure, ad un’incubatrice ambulante incapace di intendere e di volere. L’area femminile di Izquierda unida ha le idee chiare: «È una legge maschilista che ci priva della possibilità di disporre del nostro corpo e della nostra vita». Gallardón dice che è per tutelare il diritto alla vita, ma per difendere una vita futura si corre il rischio di rovinarne una presente. Psicologicamente ma anche fisicamente, perché il proibizionismo implica un potenziale pericolo per la salute delle madri. «Chi vorrà abortire lo farà in maniera clandestina e la mortalità aumenterà inevitabilmente. A meno che non ci si possa permettere un viaggio all’estero per sottoporsi all’intervento», spiega il dottor Fernández. «Questa legge – continua– oltre che pericolosa, è classista perché discrimina tra chi ha i mezzi per aggirare il divieto senza correre rischi e chi deve invece affidare la propria vita (le immigrate, ad esempio, che sono una buona parte di coloro che si sottopongono all’interruzione di gravidanza) alle pillole che vendono su Internet o alle mani di persone non qualificate».

Un rischio immotivato, tanto più che – dati alla mano – le restrizioni legali non influiscono sul numero di aborti (uno degli obiettivi dichiarati dal ministro). Nel 2010, per esempio, anno in cui l’interruzione di gravidanza è stata liberalizzata dal ministro socialista Bibiana Aído (una donna, guarda caso), il numero degli aborti, è rimasto pressoché invariato: 111.500 nel 2009 contro i 113.000 del 2010, secondo i dati dell’Eurostat, in linea, peraltro, con la media europea. «E – ci assicura la portavoce della clinica Dator, Olga Sancho – la tendenza attuale è al ribasso, nonostante il giro di vite sul piano legale si accompagni ad un oscurantismo culturale: l’educazione sessuale nelle scuole è stata ridimensionata; i contraccettivi più avanzati – prosegue – non vengono più sovvenzionati dal sistema sanitario nazionale. Però si vuole restringere l’accesso all’aborto».

Qualcosa, in effetti, non torna. E il dottor Fernández, che da 28 anni lavora nella clinica «con la stessa passione per il mio lavoro di medico e per la difesa dei diritti delle donne», pensa di sapere perché. «È una legge stupida», taglia corto. E pure ipocrita, perché in realtà, l’apparente l’inflessibilità della lista di casi «leciti» ammette una serie di interpretazioni che dipenderanno dalla volontà, dal buon senso, dalle convinzioni religiose del medico che dovrà certificare, ad esempio, il rischio per la salute della madre. Un’ambiguità «grottesca che rende la donna dipendente, senza ragione alcuna, dalla volontà e dal parere di persone del tutto estranee alla sua vicenda personale», commenta il dottor Fernández.

María, madrilena di 23 anni, ha potuto, invece, scegliere liberamente. Era rimasta incinta l’anno scorso e ha deciso di interrompere la gravidanza «perché stavo studiando, i miei genitori mi mantenevano e né io né il mio compagno eravamo nelle condizioni di poter tenere il bambino. Prima di dover ricorrere all’aborto – racconta María – lo consideravo come un diritto naturale. E le ragazze della mia generazione sono, giustamente, abituate a vederlo così. Solo quando ho dovuto confrontarmi davvero con questa scelta – prosegue María – ho capito fino in fondo l’importanza e la fragilità di questo diritto per il quale la generazione di mia madre ha dovuto lottare duramente. Io ho potuto decidere, ma se questa possibilità mi fosse stata negata sarei andata fuori dal paese, avrei trovato una maniera per fare ciò che pensavo fosse giusto per me. Ed è quello che faranno tutte le ragazze una volta approvata questa legge».