A otto mesi dalla tragedia della Tazreen e a tre da quella del Rana Plaza, le 1.243 vittime attendono ancora giustizia. Per chi ha perso tutto, familiari, lavoro, integrità fisica, possibilità di badare ai propri figli e per chi è rimasto, la tragedia continua, ogni giorno, ogni minuto.
Non solo perché il vuoto delle vite spezzate sotto quelle macerie è incolmabile, non solo perché in molti sono rimasti senza arti e senza possibilità di tornare ad essere fisicamente abili, o senza la possibilità di onorare le spoglie del proprio caro, rimasto per sempre nell’oblio dei dispersi.
Oltre a tutto questo, c’è il danno aggiuntivo dell’indifferenza da parte delle autorità e delle imprese responsabili delle precarie condizioni di sicurezza di quelle fabbriche, sinora silenti di fronte alle richieste di risarcimento dei sindacati e della società civile internazionale. Risarcire le vittime per i danni occorsi in seguito alla assenza di misure minime di sicurezza è un atto dovuto, è un dovere sia del governo che delle imprese coinvolte, secondo i Principi Guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani.
Dovere che evidentemente è frainteso e scambiato col volontarismo unilaterale, che mortifica ulteriormente le vite già segnate dei lavoratori bengalesi. Il sindacato internazionale ha proposto uno schema di risarcimento che prevede il contributo proporzionale di governo (9%), marchi e distributori internazionali (45%), associazione industriali (18%) e proprietari delle fabbriche (28%) per un totale di circa 54 milioni di euro. È basato sugli standard Ilo (convenzione 121) e definisce per le vittime un diritto: quello al pieno risarcimento per il dolore e le sofferenze subite e per la mancanza di reddito attuale e futuro. Un diritto inalienabile, al lavoro e alla vita dignitosa, non negoziabile o riducibile alla carità pelosa annunciata dalla maggior parte delle imprese, comprese quelle italiane.
L’11 e il 12 agosto a Dacca tutte le imprese che hanno avuto rapporti commerciali con la Tazreen e con le aziende del Rana Plaza sono state invitate a sedersi al tavolo con i sindacati per negoziare un accordo vero e rispettoso della dignità delle persone. Come società civile internazionale terremo lo sguardo fisso su questo processo, l’unico che può fare la differenza tra le buone intenzioni dichiarate e la concretezza delle azioni giuste.
Insieme ai lavoratori e ai sindacati internazionali e bengalesi chiediamo solo giustizia, quella che deriva dalla precisa assunzione di responsabilità in merito a quanto accaduto. Il resto è pura carità che svilisce la dignità.

* Campagna «Abiti Puliti»