Un libro e la notizia del riuso di un sito minerario, entrambi al sud, ci danno spunto per riflettere su come a volte dei luoghi abbandonati possano trovare soluzioni di recupero non dalle strategie collegate all’urbanista e all’architettura, ma dalle buone pratiche dell’arte.
Iniziamo dalla «guida» dell’artista e scrittore Fabrizio Bellomo (Bari, 1982) dal titolo Villaggio Cavatrulli, edita dalla Galleria Centro Di (pp.44, euro 35, con 52 illustrazioni). Secondo libro della collana «XXI. Guida d’Artista», ideata da Ginevra Marchi e Giacomo Zaganelli, inaugurata proprio con la ricognizione in Toscana di quest’ultimo, è il racconto fotografico composto da un fascicoletto di testi e immagini in formato leporello (un’unica striscia «a fisarmonica») di un’utopia realizzabile in Puglia dove le cave hanno cessato l’attività estrattiva e per le quali si prefigura un destino diverso dal disuso e dall’incuria. Con una mappatura sui generis, mossa dal rilievo di eventi che hanno trasformato in modo irreversibile il paesaggio, Bellomo traccia ipotesi di intervento e di sensibilizzazione registrando l’effettivo stato dei siti scavati.

OCCORRE DIRE che la Puglia, secondo l’ultimo rapporto di Legambiente sulle cave, si pone ai primi posti della classifica nazionale per quantità di materiale lapideo estratto e per numero di siti. Un’attività che per decenni si è svolta in regime di assoluta deregulation causando gravi danni ambientali e distribuendo sul territorio circa duemilacinquecento cave dismesse.
Le tappe del tour di Bellomo non sono i grandi bacini di Apricena e Trani dove «cavamonti» con macchine da taglio sofisticate hanno «creato veri e propri comprensori innaturali – come riferisce Legambiente – rimodellando completamente assetto, topografia e morfologia del paesaggio». Piuttosto il suo sguardo si è rivolto alle opere di quel «popolo delle formiche» – estendendo la definizione che negli anni Venti Tommaso Fiore diede agli umili contadini e artigiani di lì – che riuscirono a «modellare il territorio pugliese come una grande e unica scultura», ignari dei danni futuri che avrebbe procurato alla loro terra l’esagerata attività estrattiva dettata dalla domanda dei mercati.
Quei cavatori erano gli ultimi eredi di coloro che nell’antichità romana scavarono nella roccia la peschiera sulla scogliera di Polignano oppure modellarono i grandi conci dell’antica Egnazia, ora resti archeologici sulla battigia e comode sedute per i bagnanti, com’è l’ex cava di Santa Cesarea Terme: «architetture concave» divenute pratici lidi balneari.
L’esempio però più nobile di ciò che è definibile “scarto” è la chiesa rupestre di Sant’Andrea a Palagianello (TA). Sorto ipogeo, il luogo di culto è oggi visibile in forma di torrione a causa dell’estrazione in profondità, a forza di piccone, della pietra calcarea che gli stava intorno. È anch’essa un’“isola di pietra” come le solitarie architetture contadine delle pajare: cubi costruiti a secco e sospesi sull’orizzonte con affondato attorno il piano della cava. Se si ipotizzasse, per queste testimonianze della civiltà contadina, uno scavo controllato lungo il loro perimetro se ne ricaverebbero delle «sculture cinetiche» o delle «architetture pubbliche involontarie«, insomma il «Villaggio Cavatrulli»; un’idea per realizzare spazi concavi da abitare e segnati da singolari emergenze. Il risultato potrebbe essere quello che Bellomo illustra nel suo collage fotografico Capriccio pugliese” oppure nel disegno di Ugo La Pietra, che su invito dell’autore, ha voluto anche lui dare il suo contributo.

PURE la «Miniera Argentiera», a pochi chilometri da Alghero e tra i più antichi siti minerari dell’isola, è un luogo abbandonato. L’attività estrattiva del piombo e zinco argentifero iniziò alla metà dell’Ottocento, ma si esaurì quasi un secolo dopo. Dalla metà degli anni Sessanta è così iniziata l’attesa di una sua valorizzazione turistica, insieme a quella del suo borgo che in modo spontaneo gli crebbe intorno con davanti il mare. Inutile dire del fallimento degli arrangiati immobiliaristi succeduti negli anni con i loro villaggi-vacanze. La sorte ha evitato gli obbrobri in cemento, mentre l’inserimento nel Parco Geominerario e il riconoscimento Unesco hanno determinato il futuro dell’ex miniera in «museo di se stesso». Con l’acronimo Mar, Miniera Argentiera, il primo museo minerario a cielo aperto si è appena inaugurato con quattro installazioni «leggere» degli artisti, Francesco Clerici, Adolfo di Molfetta, Milena Tipaldo e Andrea Zucchetti, selezionati dall’associazione culturale LandWorks (LW) e dalla cooperativa sociale milanese Bepart.
Così accanto ai lavori di autocostruzione di vecchi tracciati e al recupero (per quanto poco conservativo) di una serie di manufatti industriali, sono state collocate le opere dei quattro “artisti digitali” che si sono misurati con le possibilità offerte dalle nuove tecnologie nel contesto di un luogo evocativo di una comunità scomparsa fondata sul lavoro duro e malpagato della miniera.
Come per la Puglia anche in Sardegna affidarsi all’arte per avere la possibilità di richiamare alla memoria dei luoghi dimenticati può essere positivo, ma ancora non sufficiente senza quell’autentica presa di coscienza della fragilità dei nostri territori derivante da fattori (clima, demografia, economia) che ormai impongono scelte radicali e immediate: un lavoro complicato che ci attende in futuro.