Verso la metà degli anni Ottanta Carlo Olmo, nella prefazione a Il racconto urbanistico di Bernardo Secchi, rifletteva intorno alla «crisi profonda» della pratica urbanistica. In quel «libro piccolo che è stato un grande successo», come dirà molti anni dopo in una nota autobiografica lo stesso Secchi, già si ponevano le basi di quella «rivoluzione epistemologica» nel campo di una disciplina che mostrava ormai da tempo il suo evidente «distacco» nei confronti della società e la politica. Dalla fine degli anni Sessanta nel vecchio continente si arresta la crescita delle città causata dai flussi migratori che nei due secoli precedenti le avevano radicalmente trasformate.

L’urbanistica con la sua dotazione di concetti, metodi, strumenti ed esperienze, messi a punto nei primi decenni del secolo scorso dalla «razionalità sociale» della modernità, non risponde più in modo adeguato alla complessità dei problemi posti dai processi di ristrutturazione economica – quelli della deindustrializzazione, dell’uso dei suoli agricoli, della riorganizzazione dei servizi – e delle istituzioni, in sintesi: alle modificazioni strutturali che investono il territorio e i centri urbani. Secchi alla metà degli anni Ottanta – docente a Ginevra dopo un periodo d’insegnamento trascorso prima a Venezia e poi a Milano – avverte l’urgente necessità di un confronto, ampio e aperto, con altre discipline per di ridefinire gli elementi che nella prassi urbanistica compongono e regolano «il rapporto tra conoscenza e decisione», tra competenza e responsabilità, tra razionalità ed equità.

Intuì che occorresse fissare un nuovo statuto epistemologico per l’urbanistica la cui centralità era data dal ricongiungere il progetto con il rigore dell’analisi urbana. I problemi connessi la gestione della città non potevano essere più disattesi e presupponevano un «riesame degli strumenti della ricerca», ossia una loro radicale revisione a causa degli scenari profondamente mutati della società. È sulla necessità di individuare altre forme di intervento che Secchi avvia il suo lavoro di urbanista che durerà per quarant’anni, concentrandosi su ciò che con un termine cinquecentesco chiamerà la politica della Renovatio Urbis.
Di questi temi e dei ragionamenti riguardanti le trasformazioni della città contemporanea tratta l’antologia degli scritti di Secchi curati da Giulia Fini dal titolo Il futuro si costruisce giorno per giorno (Donzelli, pp. 272, euro 30). La raccolta contiene testi degli ultimi quindici anni dell’urbanista e intellettuale milanese, quelli più difficili da reperire perché conseguenti alla sua attività all’estero, inseriti in saggi collettanei o inerenti interventi in seminari e convegni. Frutto dell’attività di ricerca intrapresa nel 2010 presso il Politecnico di Milano, il paziente lavoro della Fini ha innanzitutto il merito di avere reso disponibili i regesti dell’intera attività di Secchi, consegnandoci per la prima volta, completo, il contributo dell’urbanista milanese nel singolare intreccio tra teoria e progetto.

Il regesto degli scritti va dal 1962 al 2014, mentre quello delle opere si suddivide in due fasi: fino al 1990 quelle svolte singolarmente o con la collaborazione di altri suoi colleghi, e poi fino al 2014, anno della fondazione con Paola Viganò dello studio associato Secchi-Viganò, quelle da loro co-prodotte. Un secondo aspetto è il fulcro intorno al quale gravitano quasi tutti i testi e riguardante la definizione della città contemporanea europea. Questa, rispetto alla città moderna, presenta sostanziali differenze. Nella città contemporanea, sebbene vi siano disuguaglianze e disagio sociale alla pari dell’altra e lo spazio urbano sia in continuità con l’assetto datogli dalla modernità, abita una società difforme dalla precedente che si connota per la sua «frammentarietà». Da qui ne consegue, come sostiene Secchi, che «interpretata spesso come dispersione caotica di cose e soggetti, di pratiche e di economie, la città contemporanea è una città frattale».

Per comprenderla non sono più adeguate le «analisi tradizionali», buone per la «città isotropa», la «città orizzontale» che non possiede né centro né periferia, egualitaria e democratica, come la ritroviamo nel piano di Cerdà per Barcellona o in quello Berlage per Amsterdam. Secchi, soprattutto nei suoi ultimi anni, si orienta verso la comprensione della complessità e la discontinuità dei «fenomeni urbani» che richiedono soluzioni più stringenti e verificabili in grado di rispondere alle sfide poste dalla «nuova questione urbana». Le categorie che impiegherà saranno del tutto originali e «rimandano a letterature estese». Per esempio quello di «porosità» per intendere uno spazio fluido, disponibile a «pratiche non codificate», scaturisce dalla lettura di Bloch e Benjamin.

Altrettanto accade con l’uso delle «figure» della retorica. Secchi – ancora un altro esempio – indagò l’uso delle metafore all’interno del discorso urbanistico, determinando che queste hanno sempre rappresentato le varie ideologie nel tempo prodotte dai differente soggetti interagenti con lo spazio urbano. Impiegata per dare un «senso a ciò che non siamo in grado di comprendere», la metafora, nelle sue forme più o meno astratte, la ritroviamo in Secchi non solo come figura che descrive, ma che «orienta» il progetto. Abbiamo già detto dell’importanza del racconto urbanistico nel lavoro di Secchi agli inizi della sua carriera.

Anche nell’ultimo decennio della sua attività, come dimostrano i titoli di alcuni suoi scritti (Figure della mobilità, 2005; Città estreme, 2010; Città normale, 2008), si conferma il valore strategico che svolge la scrittura quale componente rilevante del progetto e mai da esso disgiunta. Nell’antologia, dove s’intrecciano ai temi di natura concettuale, storica e critica, riferimenti autobiografici (Ho conosciuto dei maestri, 2004; Generazioni, 2003), la questione della crisi urbana è però quella centrale. Secchi la fronteggia in «modo radicale» attraverso un’analisi attenta delle sue cause e mostrando – come ha bene evidenziato nell’introduzione la curatrice – tutta la sua «tensione etica verso il futuro». Guardare al futuro significa costruire scenari – cosa diversa, come ci ricorda Secchi, dal fare delle previsioni poiché se «fossimo in grado di prevedere, molti dei nostri problemi sarebbero risolti».

In particolare per l’urbanistica immaginare il futuro vuole dire costruire «ordini ipotetici», «scenari parziali» per la città e al tempo stesso pensare alla società, all’economia, alla politica. Secchi in molte parti del volume, sulla base di una serie di «indizi, spie, tendenze», spiega ciò che lui ipotizza saranno le nostre città e i nostri paesaggi. Avremo probabilmente grandi poli metropolitani (megacities), collegati da veloci reti di comunicazione, all’interno di vaste aree «connotate dalla dispersione». Perché ciò che si definisce città diffusa o sprawl, perdurerà anche se le politiche urbane, da noi come in Europa, non hanno considerato questo fenomeno come merita.

La città contemporanea oggi è inefficiente ed è «arretrata tecnologicamente». In futuro è certo che subirà trasformazioni così come accadrà allo spazio pubblico che aumenterà per estensione, anche se a gestirlo saranno chiamati soggetti privati. Tuttavia Secchi esclude che a causa della bassa crescita demografica si giunga a densificare la città fino a renderla compatta. Al suo interno si conserveranno «differenti ecologie», tutto vi conviverà tra disuguaglianze e originali forme di socialità, in un processo di continue e inarrestabili modificazioni, di distruzione di valori e comparsa di nuovi.
Nella convinzione che nulla è più ripetibile di ciò che abbiamo conosciuto nella tradizione del moderno, Secchi ci invita ad abituarci a considerare i caratteri della città contemporanea non come la «rappresentazione di un futuro desiderabile, ma un’occasione per costruirlo».