Sulla storia dell’architettura italiana del secondo Novecento si sono concentrati negli ultimi anni gli interessi di molti studiosi che hanno approfondito e riordinato sotto una diversa prospettiva, vicende e figure trascurate dalle precedenti narrazioni. L’elenco sarebbe lungo ma pochi sono i casi di racconti scritti da chi è stato anche protagonista delle vicende narrate.
Tra questi c’è Carlo Melograni che nel suo ultimo saggio, Architetture nell’Italia della ricostruzione (Quodlibet, pp.438, euro 28) illustra il ruolo giocato dalla cultura progettuale, con i suoi «equivoci, difetti, errori», nel decennio che vede il paese «devastato e immiserito» risollevarsi con il miracolo economico. Si accennava, dunque, al suo ruolo da protagonista. Melograni si laurea nel 1950 e inizia a esercitare il mestiere di architetto proprio all’indomani della fine della guerra, mentre nel 1959 si avvia alla sua attività di docente universitario, un anno prima della conclusione della ricostruzione secondo il termine post quem da lui stesso indicato nel sottotitolo: «Modernità versus modernizzazione, 1945 -1960».
Nel mezzo di questo arco di tempo si verifica il segnale più rilevante del cambiamento: il passaggio da una «ricerca collettiva con obiettivi comuni» a una che vede «l’accrescersi dell’ambizione di caratterizzare le singole individualità». Della prima ne avevamo avuta un’onesta esposizione nel suo precedente saggio (Architettura italiana sotto il fascismo, Bollati Boringhieri, 2008) alla quale dobbiamo collegarci per comprendere la seconda. Per molti architetti, infatti, è durante la ricostruzione che matura la ricerca che si svolgerà individualmente rispetto a quella di gruppo intrapresa nel Ventennio fascista oppure, come accadde per i più anziani di loro, la conservazione delle rendite di posizione appena scalfite dopo la Liberazione.

Memoria e propaganda
Il saggio inizia dalle architetture che tramandano «la memoria del martirio»: a Roma il Mausoleo alle Fosse Ardeatine di Perugini e a Milano, nel cimitero monumentale, il Memoriale dei morti nei campi di sterminio dei Bbpr. «L’urgenza del presente» coincide con la necessità di estendere e consolidare, nell’entusiasmo della riconquistata libertà democratica, i valori del Movimento Moderno. Le traduzioni degli scritti di Pevsner, Wright o Giedion, i saggi di Argan, De Carlo o Zevi servono a ristabilire quella «continuità» di cui si farà principale artefice Ernesto N. Rogers sulle pagine di Casabella ricollegandosi alle più qualificate esperienze della modernità in Europa soprattutto nell’ambito dell’abitazione e dell’urbanistica.
Per dare risposte convincenti sul piano tecnico, estetico e sociale si confrontano tra Milano e Roma due gruppi: il Movimento di Studi per l’Architettura (Msa) e l’Associazione per l’Architettura Organica (Apao). Il dibattito di quegli anni è ripercorso da Melograni con scrupolo. Coglie, con le dovute distinzioni, tra chi guarda ancora all’architettura del funzionalismo e chi ne ha contestato gli esiti formali. Per entrambi individua «più di un aspetto negativo»: i primi sono sedotti dal determinismo del Razionalismo mentre i secondi sono troppo «indulgenti» con il monumentalismo fascista. Purtroppo per rispondere ai bisogni della società di massa «né i principi dell’architettura organica né i modi di inserirsi bene in un contesto portavano un contributo di rilievo». Per Melograni la definizione delle «nuove regole» per la progettazione doveva scaturire da posizioni meno «elitarie». Inoltre, né la discussione sulle «preesistenze ambientali» né quella esaltante le «esigenze psicologiche» dell’architettura produssero risultati significativi.

CM_Roma_ Palazzetto dello Sport , Pier Luigi Nervi e Annibale Vitellozzil, 1956-1957 (Collezione MAXXI Architettura. Archivio Pier Luigi Nervi)
Roma, Palazzetto dello Sport , Pier Luigi Nervi e Annibale Vitellozzil, 1956-1957

Il giudizio è severo ma per l’autore le cause in primis sono da individuare negli anni ’20 e ’30 quando l’interesse non fu quello di promuovere l’edilizia sociale ma interventi utili alla propaganda. Da qui l’incapacità di dare soluzioni convincenti, nella metà degli anni ’50, quando si dovettero pianificare i primi insediamenti di edilizia popolare: dai quartieri romani dell’Ina-Casa del Tiburtino (Quaroni, Ridolfi) e del Tuscolano (De Renzi, Muratori, Libera) fino a quelli milanesi (quartiere Harrar di Figini, Pollini, Ponti).

Nella capitale apparvero «anacronistiche forme vernacolari», per una equivoca lettura della tradizione degli «stili minori» o spontanea, mentre nel capoluogo lombardo «approcci poco convinti a soluzioni influenzate dal neoempirismo scandinavo». In questo caso Melograni condivide il giudizio di Tafuri sul fatto che gli architetti «fallirono» in quegli anni il compito di fornire modelli per l’edilizia corrente non applicando «regole e criteri nuovi di metodo progettuale» con evidenti conseguenze sulla legislazione urbanistica.

Il divario tra passato e presente
È però nel capitolo centrale, «la persistenza del passato», che è esposto il giudizio critico più convinto che risiede nel non avere distinto il nostro «passato remoto» – l’antico e la tradizione – dal «passato prossimo» con i suoi pastiche otto-novecenteschi. Nel compito di doversi misurare con i temi della ricostruzione per gli architetti sarebbe stato saggio riprendere ciò che «di più interessante si era fatto da noi durante i venti anni precedenti», ma così non è accaduto. Fedele sostenitore dei valori della modernità, e in particolare del Funzionalismo, così come radicalmente saranno espressi da Gropius o Le Corbusier, Melograni passa in rassegna i più significativi interventi nei centri storici delle nostre città, persuaso che rispetto alla rogersiana «continuità del passato» sarebbe stato meglio aderire a scelte più rigorose sia di metodo sia di linguaggio. Ora, se sul linguaggio le sue osservazioni sono tutte rivolte agli antimoderni – da Gabetti e Isola a Rossi – ma anche a dei moderni, come Luigi Moretti – su di lui «rivalutazioni eccessive e squilibrate» – sul metodo la questione è più complessa.
Negli ultimi capitoli, Melograni lamenta l’incapacità di perseguire quell’unità effettiva tra architettura e urbanistica relegandola alla sola teoria: in specie quella di Samonà e Quaroni. Del resto, il compito di regolare i fenomeni nuovi e disomogenei dell’evoluzione della città non è un compito facile se, come ha scritto Benevolo, la «fine della città» ha coinciso con la «fuga da essa». Tuttavia non si può rinunciare a pianificare la «dilagante città attuale» che dagli anni della ricostruzione attende soluzioni efficaci per qualificarla sul piano estetico e sociale. Gli esempi non mancano e Melograni cita a riguardo i Paesi Bassi. Dall’avveniristico e non attuato «Progetto Pampus» (1964) di Jakob Bakema e Johannes van den Broek alla realtà della città diffusa di «Randstad Holland», la cultura urbana olandese ha dimostrato cosa significhi «convertire invenzioni escogitate dallo sperimentalismo delle avanguardie in soluzioni da applicare in una pratica diffusa».

Il progetto discontinuo
Da noi l’architettura non è solo con l’urbanistica che non ha saputo instaurare un scambio durevole e proficuo. Anche il disegno industriale – dove comunque il contributo italiano è e continua a essere «sostanzioso» – non è stato considerato disciplina strategica del rinnovamento urbano. Tranne qualche eccezione che per Melograni va all’opera di Scarpa, Albini, Valle, il «cosmopolita del nord-est», De Carlo e Piano, quest’ultimo «il più bravo tra gli architetti italiani attualmente operanti», non c’è stata adesione sincera verso i processi della serialità industriale, quelli colti nel principio lecorbusieriano, e per lui sempre valido, della machine à habiter. Per ottenere i migliori risultati nell’abitare, i valori della modernità per l’architetto romano non devono essere confusi con le ideologie della modernizzazione, ma compiersi nell’«interazione tra edilizia, oggetti e strutture urbane», soprattutto per misurarsi con le «questioni pratiche» più vicine ai bisogni dei cittadini, quelli che la nostra cultura progettuale troppo spesso dimentica.