Profondo rimorso, ma non troppe scuse. Le parole attesa da molti asiatici sono arrivate solo in modo indiretto. Il Giappone, ha detto Abe, ha più volte «espresso i sentimenti di profondo rimorso e di scuse sincere per le azioni fatte durante la guerra». È questo il succo del discorso del primo ministro giapponese nel settantesimo anniversario della resa del Giappone al termine della Seconda guerra mondiale.

Un discorso atteso tanto dai cittadini giapponesi, quanto dai vicini asiatici come Cina e Corea del Sud, aspettando il voto del parlamento di Tokyo sulle proposte del governo che potrebbero favorire un ritorno alla guerra delle forze militari del Sol Levante. Cina e Corea non hanno gradito granché.

Pechino ha definito le scuse «annacquate» per il «contesto calibrato con cura» nel quale le ha inserite, la Corea è stata ancora più netta: Tokyo non ha chiesto scusa per quelli che sono considerati crimini di guerra. Del resto Abe ha pure specificato che «le generazioni del dopoguerra ora superano l’80% della popolazione: non dobbiamo lasciare che i nostri figli, nipoti e altre generazioni a venire, che non hanno nulla a che vedere col conflitto siano predestinati a chiedere scusa». Abe, in visita a Yamaguchi, nell’omonima provincia del Giappone sudoccidentale, bastione del primo ministro che proprio qui è nato, aveva anticipato il suo discorso: «Intendo comunicare al mondo il rimorso per la guerra e i progressi fatti nel dopoguerra».

La Dichiarazione Abe arriva a 10 anni di distanza da quella pronunciata da Jun’ichiro Koizumi del 2005 e a 20 dalla Dichiarazione Murayama del 1995, pronunciate rispettivamente nel sessantesimo e nel cinquantesimo anniversario della fine della Guerra del Pacifico. Quest’ultima in particolare ricordava «i danni tremendi e la sofferenza dei popoli di molti paesi» causati dal colonialismo e dall’aggressione militare giapponese in Asia.

Questi fatti «innegabili», ricordava nel suo discorso l’ex premier Tomiichi Murayama, furono frutto di una «politica nazionale sbagliata» per cui il governo di Tokyo a distanza di cinquant’anni esprimeva le più «sentite scuse». Per la sua stesura del discorso, a febbraio di quest’anno, era stata nominata una commissione ad hoc formata da sedici storici, rappresentanti dell’imprenditoria e dei media.

Il 7 agosto scorso, il presidente dell’organo, Taizo Nishimuro, presidente del gruppo delle Poste giapponesi ed ex presidente Toshiba – rimasto fuori dal recente scandalo dei bilanci truccati che ha colpito il colosso giapponese degli elettrodomestici e degli impianti nucleari – e Shin’ichi Kitaoka, rettore della International University of Japan, hanno presentato all’amministrazione un rapporto dell’attività della commissione: in linea con le dichiarazioni Koizumi e Murayama, il documento confermava le responsabilità di guerra giapponesi, ma lasciava al premier la decisione di inserire o meno delle scuse.

«La formulazione della dichiarazione di Abe per il prossimo anniversario della resa era attesa all’esame di numerosi osservatori in Giappone e all’estero», ha spiegato al manifesto Ulv Hanssen, dottorando della Freie Universität di Berlino e visiting researcher presso l’Università di Tokyo. «Al premier si chiedeva un equilibrio, da una parte, tra le spinte nazionalistiche domestiche, che non tollererebbero concessioni sulle questioni storiche; e, dall’altra parte, tra l’opinione pubblica progressista in Giappone e all’estero, che si aspettava una conferma delle scuse espresse nelle precedenti dichiarazioni».

Non è un mistero però che la dichiarazione Murayama, che alcuni osservatori definiscono il «gold standard» della diplomazia contemporanea giapponese postbellica fondata sul pacifismo, vada stretta ad Abe.

L’attuale primo ministro giapponese ha infatti inaugurato una politica estera incentrata sul «pacifismo proattivo» e che vede un maggiore coinvolgimento giapponese sulla scena internazionale: da pochi giorni la camera bassa del Parlamento giapponese ha approvato una serie di misure che, se trasformate in legge, estenderebbero le capacità di impiego dei militari giapponesi all’estero a supporto e protezione di forze alleate. Ma, soprattutto, ad Abe, convinto nazionalista, va stretta l’interpretazione della storia alla base della dichiarazione del 1995, considerata troppo «masochista».

«Abe ha giocato il ruolo del ribelle» – spiega ancora Hanssen – e l’obiettivo della sua ribellione è stato il Giappone postbellico, visto come passivo, debole e decadente. Nella sua retorica si leggono spesso frasi pensate per liberarsi dal “regime postbellico” per creare un “paese meraviglioso”: mettere in primo piano i successi del Giappone nel dopoguerra, minimizzando le espressioni di rimorso per il periodo bellico è uno scopo in sé, in quanto rappresenta per lui una rottura con la passività e il servilismo del passato».